In politica la solitudine è sempre relativa, e per quanto riguarda chi si trova al potere, nel caso specifico alla presidenza di uno dei due rami del Parlamento, la nozione di isolamento lo è ancora di più. E tuttavia a nessun odierno leader, come a Gianfranco Fini, si adatta meglio il motto, o lo status, o il programma, addirittura: meglio solo che berlusconizzato.
A dire il vero, non si capisce tanto bene se si tratta di scelta consapevole o di necessitata virtù. Le due cose, oltretutto, non sono in contraddizione. Con ragionevole approssimazione si può considerare Fini come il decano onorario, il record-man dei leader di partito, avendo egli cominciato a guidarne quasi ininterrottamente dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso. E' stato giovane segretario del Msi, poi maturo fondatore e immediato presidente di An; e ancora qualche tempo fa, per noia o per capriccio, per sfida politica o scommessa tattica, comunque per l'ennesima volta si era messo in testa di azzerare la classe dirigente, di degradare i colonnelli e di cambiare anche il nome della creatura da lui stesso generata a Fiuggi. Non che "Alleanza per l'Italia" facesse poi tutta questa differenza, politica e lessicale, ma insomma: a via della Scrofa, così come un tempo nella cupa e polverosa sede missina di Palazzo Del Drago, tra labari e gagliardetti, comandava lui. Punto e basta.
Ma è anche vero che prima di essere eletto alla guida di Montecitorio un po' si era pure scocciato del partito. Anzi, molto. Così come è vero - anche se non sono cose che si riconoscono dalla tribuna di un congresso - che i suoi rapporti con i notabili del medesimo partito, da lui più e più volte promossi e poi bacchettati, messi al bando e quindi perdonati, denunciavano un evidente logorio, uno stress al contempo irrisolto e compresso, con relativo scivolamento in una dimensione abbastanza irreale.
Che fatica la gestione, anche psicologica, di Storace e della Mussolini, per giunta in lite fra loro. Che fastidio l'insistenza di Gasparri, l'esuberanza di La Russa, il cameratesco paternalismo di Buontempo, le chiacchiere della "Caffettiera". Che strazio la Santanché e le polemiche sulle "palle di velluto". Che pena il ciclone intercettatorio del 2006, voci captata fin dentro il cuore dell'entourage, della famiglia. Basta, basta, basta.
Bene. Il nuovo ruolo istituzionale ha consentito a Fini di tenersi alla larga da quel "patto del notaio" (Paolo Becchetti, si chiama il professionista, nonché deputato di Forza Italia nel collegio di Civitavecchia) che con qualche oscura risolutezza stabilisce che ad An tocchi il 30 per cento delle quote di potere dell'imminente Pdl. Mentre sul piano politico, ancora nel gennaio scorso, durante un pranzo con il presidente del Consiglio, lo stesso Fini gli ha fatto presente i suoi dubbi su una possibile acclamazione di Berlusconi, giacché "la scelta di un leader di partito non è uno show".
Il fatto è che quello non è più un "partito", parola desueta, ma un "Popolo", con la maiuscola addirittura; e di conseguenza non uno show si merita, questo Popolo, ma un Super-Mega-Iper e Wonder Show, già assai bene pianificato. A giudicare da un'informatissima anticipazione di Panorama, settimanale della Real Casa di Arcore, tutto sarebbe già deciso: "Il Fini-day sarà proprio sabato e forse dal suo intervento verranno gli spunti più stimolanti rispetto alla futura dialettica interna del Pdl. Qualcuno si attende scintille, ma è difficile che il presidente della Camera (destinato a essere l'ambasciatore del Pdl dentro la famiglia dei Popolari europei) voglia esibirsi in un discorso ad alto voltaggio. Ci sarà qualche scarica, ma non il cortocircuito".
Fino a prova contraria, è dunque questa la parte che da Palazzo Grazioli è stata assegnata a Fini, completa di accessoria funzione diplomatica nel Ppe. E se non prefigura la solitudine, occorre riconoscere che poco ci manca.
Di possibile delfinato non si parla più. In compenso, tra mammiferi e pesci della vita pubblica, l'altro giorno don Gianni Baget Bozzo ha ricordato che l'attuale presidente della Camera è un appassionato di immersioni subacquee e anche di squali (per un certo periodo, in effetti, Fini ha tenuto sul display del telefonino una sua foto con una terrificante femmina grigia di tre metri). Perciò squalo e non delfino: "L'immagine - notava don Gianni - non è molto rassicurante".
E non lo è. Ma vuoi mettere con il Fini che nel novembre del 2007 non solo non voleva sentir parlare di Pdl, ma menava sul Cavaliere "come un fabbro". Diceva: "Tanto con me dovrà fare i conti. Non è eterno, e io ho vent'anni di meno". La già intensa letteratura su "La svolta del predellino" (così s'intitola una ricostruzione di Laura Della Pasqua, appena uscita per Bietti) è necessariamente parca di dettagli su ciò che veramente spinse Fini, all'inizio assai riottoso, ad aderire al progetto berlusconiano.
"Alla fine le pennette tricolore non erano poi così cattive". Si potrebbe pensare: l'eterogenesi di Fini. Ma la politica, dice spesso proprio lui, "è bella perché è imprevedibile". Adesso, per dire, studia Sarkozy, i nuovi conservatori di Cameron e i nuovi moderati svedesi di Reinfeldt. Scopre le virtù del progresso. E' quasi di sinistra. Stai a vedere che Berlusconi prima o poi si pente.
(20 marzo 2009)
A dire il vero, non si capisce tanto bene se si tratta di scelta consapevole o di necessitata virtù. Le due cose, oltretutto, non sono in contraddizione. Con ragionevole approssimazione si può considerare Fini come il decano onorario, il record-man dei leader di partito, avendo egli cominciato a guidarne quasi ininterrottamente dalla fine degli anni ottanta del secolo scorso. E' stato giovane segretario del Msi, poi maturo fondatore e immediato presidente di An; e ancora qualche tempo fa, per noia o per capriccio, per sfida politica o scommessa tattica, comunque per l'ennesima volta si era messo in testa di azzerare la classe dirigente, di degradare i colonnelli e di cambiare anche il nome della creatura da lui stesso generata a Fiuggi. Non che "Alleanza per l'Italia" facesse poi tutta questa differenza, politica e lessicale, ma insomma: a via della Scrofa, così come un tempo nella cupa e polverosa sede missina di Palazzo Del Drago, tra labari e gagliardetti, comandava lui. Punto e basta.
Ma è anche vero che prima di essere eletto alla guida di Montecitorio un po' si era pure scocciato del partito. Anzi, molto. Così come è vero - anche se non sono cose che si riconoscono dalla tribuna di un congresso - che i suoi rapporti con i notabili del medesimo partito, da lui più e più volte promossi e poi bacchettati, messi al bando e quindi perdonati, denunciavano un evidente logorio, uno stress al contempo irrisolto e compresso, con relativo scivolamento in una dimensione abbastanza irreale.
Che fatica la gestione, anche psicologica, di Storace e della Mussolini, per giunta in lite fra loro. Che fastidio l'insistenza di Gasparri, l'esuberanza di La Russa, il cameratesco paternalismo di Buontempo, le chiacchiere della "Caffettiera". Che strazio la Santanché e le polemiche sulle "palle di velluto". Che pena il ciclone intercettatorio del 2006, voci captata fin dentro il cuore dell'entourage, della famiglia. Basta, basta, basta.
Bene. Il nuovo ruolo istituzionale ha consentito a Fini di tenersi alla larga da quel "patto del notaio" (Paolo Becchetti, si chiama il professionista, nonché deputato di Forza Italia nel collegio di Civitavecchia) che con qualche oscura risolutezza stabilisce che ad An tocchi il 30 per cento delle quote di potere dell'imminente Pdl. Mentre sul piano politico, ancora nel gennaio scorso, durante un pranzo con il presidente del Consiglio, lo stesso Fini gli ha fatto presente i suoi dubbi su una possibile acclamazione di Berlusconi, giacché "la scelta di un leader di partito non è uno show".
Il fatto è che quello non è più un "partito", parola desueta, ma un "Popolo", con la maiuscola addirittura; e di conseguenza non uno show si merita, questo Popolo, ma un Super-Mega-Iper e Wonder Show, già assai bene pianificato. A giudicare da un'informatissima anticipazione di Panorama, settimanale della Real Casa di Arcore, tutto sarebbe già deciso: "Il Fini-day sarà proprio sabato e forse dal suo intervento verranno gli spunti più stimolanti rispetto alla futura dialettica interna del Pdl. Qualcuno si attende scintille, ma è difficile che il presidente della Camera (destinato a essere l'ambasciatore del Pdl dentro la famiglia dei Popolari europei) voglia esibirsi in un discorso ad alto voltaggio. Ci sarà qualche scarica, ma non il cortocircuito".
Fino a prova contraria, è dunque questa la parte che da Palazzo Grazioli è stata assegnata a Fini, completa di accessoria funzione diplomatica nel Ppe. E se non prefigura la solitudine, occorre riconoscere che poco ci manca.
Di possibile delfinato non si parla più. In compenso, tra mammiferi e pesci della vita pubblica, l'altro giorno don Gianni Baget Bozzo ha ricordato che l'attuale presidente della Camera è un appassionato di immersioni subacquee e anche di squali (per un certo periodo, in effetti, Fini ha tenuto sul display del telefonino una sua foto con una terrificante femmina grigia di tre metri). Perciò squalo e non delfino: "L'immagine - notava don Gianni - non è molto rassicurante".
E non lo è. Ma vuoi mettere con il Fini che nel novembre del 2007 non solo non voleva sentir parlare di Pdl, ma menava sul Cavaliere "come un fabbro". Diceva: "Tanto con me dovrà fare i conti. Non è eterno, e io ho vent'anni di meno". La già intensa letteratura su "La svolta del predellino" (così s'intitola una ricostruzione di Laura Della Pasqua, appena uscita per Bietti) è necessariamente parca di dettagli su ciò che veramente spinse Fini, all'inizio assai riottoso, ad aderire al progetto berlusconiano.
"Alla fine le pennette tricolore non erano poi così cattive". Si potrebbe pensare: l'eterogenesi di Fini. Ma la politica, dice spesso proprio lui, "è bella perché è imprevedibile". Adesso, per dire, studia Sarkozy, i nuovi conservatori di Cameron e i nuovi moderati svedesi di Reinfeldt. Scopre le virtù del progresso. E' quasi di sinistra. Stai a vedere che Berlusconi prima o poi si pente.
(20 marzo 2009)
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