venerdì 20 marzo 2009

MOBBING - QUANDO LA VITA NON È BELLA


Aldo Maturo

“Mi piace lavorare” di Francesca Comencini è un film del 2003 ma sempre attuale. La regista di “Carlo Giuliani,ragazzo” (sui disordini del G8 a Genova) ne ha fatto una cruda denunzia sul problema del mobbing, affidandone l’interpretazione a Nicoletta Braschi, la moglie di Benigni. E’ un problema attuale il mobbing e in Europa ne sono vittime oltre 40 milioni di dipendenti mentre in Italia, secondo alcune stime di certo approssimative, i lavoratori mobbizzati sarebbero circa due milioni.

Per l’ISPESL (Istituto Superiore per la Prevenzione e la Sicurezza del Lavoro) oltre il 70% delle denunce provengono dal pubblico impiego, l’età media delle vittime ha oltre 50 anni ed appartiene per oltre l’80% alla fascia dei Quadri ed Impiegati.

Mobbing deriva dall’inglese to mob, aggredire, ed è passato nella sua accezione comune ad indicare il complesso di violenze morali e psicologiche esercitate su un dipendente in un ambiente di lavoro. Invidia, gelosia, concorrenza, antipatia, competizione esasperata, creano una conflittualità al limite della persecuzione psicologica proveniente indifferentemente da un superiore (mobbing verticale), da colleghi pari grado (mobbing orizzontale) o, al limite, da inferiori (mobbing ascendente) Se poi questo comportamento è finalizzato a spingere il lavoratore a dare le dimissioni o a chiedere il trasferimento ad altra sede si parla di mobbing strategico.

Perché vi sia mobbing è comunque necessaria, secondo la giurisprudenza e la dottrina, “una serie prolungata di soprusi inseriti in una condotta persecutoria protratta nel tempo”. Il soggetto è destinatario di comportamenti di tipo persecutorio, attuati in modo evidente e continuo. Il fine è di eliminare una persona che è o è divenuta, in qualche modo, scomoda, distruggendola psicologicamente e socialmente, isolandola dal contesto lavorativo, umiliandola fino a provocarne il licenziamento, spingendola alle dimissioni o al trasferimento.

I comportamenti mobbizzanti sono i più diversificati e sono noti a chiunque vive in un ambiente di lavoro:

- atteggiamento palesemente difforme del superiore rispetto agli altri dipendenti;
- sistematico discredito, calunnia, diffamazione di colleghi verso un altro collega;
- dequalificazione nel lavoro;
- diniego immotivato di permessi o ferie;
- accuse generiche, non supportate da fatti o circostanze;
- rimproveri alla presenza di colleghi pari grado, inferiori o in pubblico;
- critiche continue e immotivate, aggressioni verbali;
- demansionamento e attribuzione di compiti dequalificanti e non adeguati alla propria professionalità;
- desocializzazione con isolamento fisico in uffici decentrati, spogli,senza contatti con altri, negando all’interessato le informazioni di lavoro necessarie;
- richiesta di più controlli medico-fiscali per lo stesso periodo di assenza per malattia, diversamente dalle prassi seguite nei confronti di altri;
- distacchi illegittimi;
- minacce continue o immotivate di procedimenti disciplinari;

Per il lavoratore vittima di mobbing la vita diventa un inferno, sia nell’ambiente lavorativo che in quello privato. L’integrità psicofisica del soggetto diventa compromessa e passa velocemente ed irrimediabilmente nella schiera dei DAP-isti, i portatori di Depressione-Ansia-Panico: vive con disperazione la presenza sul posto di lavoro, cominciano le prime forme depressive reattive, inizia l’assunzione di psicofarmaci: Sono cure del tutto inutili se a monte non si risolve la causa del disagio.

Il mobbing può portare anche alla invalidità psicologica del lavoratore tanto che si parla insistentemente di riconoscerla come malattia professionale, al pari di un infortunio sul lavoro.

Pare che l’INAIL abbia suddiviso le patologie da mobbing tra lievi e gravi; per le lievi è riconosciuto un danno biologico del 6% mentre per le gravi del 15%. Se si considera che le norme generali dell’INAIL prevedono una franchigia di 10 punti si avrà il risultato che per i casi gravi si indennizzano solo il 5% mentre per gli altri casi non vi è alcun indennizzo.

La vita del mobbizzato è difficile sia nel luogo di lavoro che nelle aule di giustizia. In linea teorica è possibile richiedere:

- il danno biologico, quale lesione all’integrità psicofisica della persona che andrà sottoposta ad accertamento medico legale. A carico del datore di lavoro o del Capo Ufficio può configurarsi la violazione delle norme del codice civile (art. 2087, art. 1375 e art. 1175) che impongono al datore di lavoro di garantire la sicurezza sul posto di lavoro assicurando l’integrità psico-fisica del lavoratore. La giurisprudenza ha riconosciuto il danno biologico in relazione a varie ipotesi, es. lavoro usurante senza concessione di riposo, sovraccarico di lavoro, isolamento fisico e psicologico del soggetto, aggressioni verbali, molestie sessuali, dequalificazione professionale, mancata concessione di benefici di carriera ed economici.

Il danno biologico può essere provato con prove testimoniali, documentali, sindacali e con una consulenza medico legale disposta dal giudice che accerti il nesso di causalità tra il pregiudizio subito a livello psico-fisico e gli eventi mobbistici subiti;

- il danno esistenziale è correlato ai riflessi sulla vita di relazione del soggetto che, diventato depresso ed ansioso, vittima di attacchi di panico, si chiude in se stesso limitando la sua attività al pendolarismo tra casa e ufficio, quando non decide di assentarsi per malattia restandosene chiuso in casa in attesa della visita fiscale o anche nel timore di più visite fiscali. Una tale situazione non può che ripercuotersi anche sulla famiglia,stravolgendone le abitudini e i contatti con l’esterno.

- il danno professionale deriva dalla decisione del datore di lavoro o capo ufficio di negare o impedire al dipendente di svolgere le mansioni correlate alla sua qualifica determinando una dequalificazione del suo profilo. E’ un danno all’immagine che si ripercuote sulla vittima a maggior ragione nell’impiego privato dove – tramite il passaparola - determina una svalutazione professionale del soggetto nel mercato del lavoro, precludendogli opportunità lavorative.

- il danno da demansionamento o dequalificazione integra una lesione del diritto del lavoratore ad estrinsecare le sue capacità professionali e si ripercuote non solo nella vita professionale ma anche nella vita di relazione e va quantificato sia in senso patrimoniale che non (Cass.Civ.Sez.III, n.7980/2004).

Di eccezionale rilevanza, ai fini del risarcimento, è la recentissima sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione, la n. 26972 dell’11.11.2008 (cui si rinvia), sentenza che ha stravolto quanto finora si era scritto e consolidato in materia di risarcimenti. Secondo la Cassazione“ il danno esistenziale non esiste quale autonoma categoria di danno ma va risarcito in quanto danno non patrimoniale ogni qualvolta integri la lesione di un interesse costituzionalmente rilevante”. E’ risarcibile la sofferenza morale che sia conseguenza di un comportamento lesivo di un interesse costituzionalmente qualificato. Non è possibile approfondire in questa sede la sentenza, che necessiterebbe di una trattazione autonoma.

Resta il fatto che davanti al giudice bisogna fornire la prova della relazione diretta tra il danno subito e gli eventi di cui si è stato vittima. Il danno biologico potrà essere accertato in sede medico legale, il danno esistenziale dipenderà da accertamenti che dimostrino l’alterazione delle abitudini relazionali del soggetto sintomo della modificazione subita dalla sua personalità.
Per i dipendenti della Pubblica Amministrazione contrattualizzati (i c.d. ministeriali e quindi la maggioranza) le controversie di lavoro restano di competenza del magistrato ordinario e seguono le procedure preliminari previste dal D.Lgs. 165/2001.

La sentenza del Tar Roma n. 3315/2007 ha voluto differenziare la tutela per gli altri dipendenti della P.A., i non privatizzati (forze di polizia, magistratura, carriera diplomatica, penitenziaria o prefettizia, etc.). A loro ha riconosciuto una doppia tutela, quella del giudice ordinario e quella del Tar. E’ competenza del primo il mobbing dovuto a comportamenti vessatori dei superiori gerarchici e dei colleghi, resta competenza del Tar invece il mobbing dovuto a demansionamento. Quest’ultima forma di mobbing, infatti, derivando dall’emanazione di atti amministrativi ritenuti illegittimi, resta di competenza del Tar.

Ancora più difficile è la tutela penale perché in tal caso il lavoratore deve provare la sussistenza della volontà vessatoria del superiore o dei colleghi, cioè il dolo specifico che li ha animati nel colpirlo ponendo in essere comportamenti antigiuridici. Tale prova è difficilissima perché si scontra con la viltà strisciante di tanti ambienti di lavoro dove, pur nella consapevolezza del disagio di un collega, del trattamento mobbizzante che subisce, nessuno parla e nessuno è disposto a testimoniare. Il timore di ritorsioni da parte dei responsabili o degli stessi capi ufficio diventa un ostacolo insormontabile a riprova della viltà e dell’insensibilità di tanta gente.

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