sabato 28 marzo 2009

Israele impari a trattare con il nemico


28/3/2009
ARRIGO LEVI

Non ricordo nessun altro governo d’Israele, nei sessant’anni trascorsi dalla fondazione dello Stato, che sia stato salutato, alla vigilia della sua formazione, da un così vasto coro di commenti negativi anche in Paesi tradizionalmente amici. Il governo più radicalmente di destra nella storia d’Israele», ha scritto il Financial Times, «con un ministro degli Esteri, Lieberman, apertamente razzista». L’ingresso nella coalizione di governo, dopo un iniziale rifiuto e una spaccatura interna tra favorevoli e contrari, dei laburisti di Ehud Barak, mentre è rimasto il no deciso e ripetuto di «Kadima», primo partito in Parlamento, è stato salutato soltanto come «una foglia di fico» per il nuovo primo ministro Netanyahu. Il rifiuto, almeno fino a questo momento, di accettare, anzi confermare come fine dichiarato del negoziato in corso la nascita di due Stati, Israele e Palestina (un obiettivo su cui si sono impegnati America e Unione Europea), è compensato solo in parte dall’impegno dell’ultima ora di «negoziare con l’Autorità Palestinese per la pace», e di continuare una trattativa mirante a rafforzare economicamente, e politicamente, il potere di Abu Mazen nella West Bank. Non è chiaro finora come sia visto dal nuovo governo il piano di pace saudita, anch’esso impostato sulla nascita dei due Stati, piano che il presidente Peres aveva salutato con grande favore, e che ha raccolto il consenso di tutto il mondo arabo-islamico (con l’eccezione della corrente estremista-terroristica che vorrebbe cancellare Israele dalla carta geografica).

Quello che il mondo ritiene probabile, se non certo, è il rafforzamento, e non la riduzione, delle colonie ebraiche nella West Bank, e il rifiuto di qualsiasi ipotesi di presenza di un governo palestinese a Gerusalemme: ipotesi che il governo israeliano uscente aveva in linea di principio accettato. Chi ritiene che la definitiva garanzia del futuro dello Stato d’Israele sia proprio la nascita al suo fianco di uno Stato palestinese, non può non seguire con ansia l’evolversi del conflitto, che non è soltanto fra «due popoli nella stessa terra», ma, più o meno chiaramente, fra Israele e il mondo arabo-islamico che lo circonda. Questi sono gli umori e i giudizi prevalenti fra gli amici provati d’Israele, mentre continuano, in un’atmosfera da «suk» mediorientale, le ultime trattative tra Netanyahu e il variopinto arco di partiti - dalla destra più estrema ai laburisti - che dovrebbero sostenere il nuovo governo. In questa fase cresce d’ora in ora, per accontentare tutti (noi italiani abbiamo una forte esperienza in materia, ma Israele forse ci batte) il numero dei futuri ministri o sottosegretari. Allo stato attuale, potrebbero entrare al governo più della metà dei membri del Parlamento (necessariamente, oltre i sessanta, ma certo meno di settanta) impegnati a votarlo. Il «banco del governo» rischia di occupare alla Kneset, con i suoi 120 membri, uno spazio spropositato. Un osservatore prudente deve aggiungere, per completare un quadro che, alla prova dei fatti, potrebbe rivelarsi meno fosco di quanto oggi appaia, una o due osservazioni. La prima riguarda l’influenza che i governi amici d’Israele, e prima fra tutti l’Amministrazione americana, potranno avere sul governo di Netanyahu, per indurlo ad una maggiore disponibilità sulla prosecuzione e sui fini del negoziato. Va poi ricordato che Netanyahu è già stato primo ministro d’Israele, che negoziò con l’Olp, e che dimostrò allora di essere molto sensibile (oggi lo sarà più che mai, in piena crisi economica) all’influenza americana. Netanyahu ha fama di politico astuto, duttile e realista, e altrettanto può dirsi di Ehud Barak. Secondo alcuni osservatori, potrebbe rivelarsi tale anche il superfalco Lieberman. Ma sarebbe ingiusto non sottolineare che sugli indirizzi della politica del nuovo governo israeliano, e sulla sua sopravvivenza (che i più giudicano non possa durare a lungo, vista 1a variegata composizione della coalizione e la scarsità del margine di maggioranza), influirà non poco l’atteggiamento palestinese. E non mi riferisco soltanto ad Abu Mazen, ma anche a Hamas. Se insisterà sulla «politica del no» (il «fronte del no» abbracciava in passato decenni la totalità del mondo araboislamico; oggi non è più così), un possibile confronto fra una West Bank in via di sviluppo e la catastrofe di Gaza potrebbe indebolire gravemente Hamas in tutto l’elettorato palestinese. Ma qui si apre anche un terreno ricco di possibilità e di difficili scelte per America ed Europa (oltre che per Israele). Aprire o non aprire uno spiraglio di negoziato anche con Hamas? Vi è chi lo ritiene possibile, ed anzi necessario (è con i nemici che si tratta, diceva Dayan), con argomenti che vanno valutati realisticamente.

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