Cardinale chiama, governo risponde? Qualche vescovo, forse, avrà pure esultato per le norme che la legge sul testamento biologico riuscirà, probabilmente, a far entrare nel nostro ordinamento. Gli altri vescovi, quelli che i documenti della Chiesa oltre che a predicarli li leggono anche, faranno molta fatica a trovare, nel lavoro di Calabrò e associati, le tracce di quell’acqua santa che i laici pensano di vedervi. È sufficiente, per fare l’esame di catechismo alla futura legge, dare una scorsa ai tre documenti che, nei seminari e nella facoltà di teologia, servono da riferimento all’insegnamento della bioetica in materia di fine vita.
I testi sono la dichiarazione della Congregazione per la dottrina della fede del 5 maggio 1980 sull’eutanasia (il titolo IV è sull’uso proporzionato dei mezzi terapeutici), l’enciclica del 1995 Evangelium Vitae (nn. 64-67) e il documento Il rispetto della dignità del morente del 2000 della Pontificia Accademia Pro Vita.
Dove i documenti del magistero cattolico dicono «sì», la legge votata dal Senato ha detto «no». E chissà se la mano che ha cancellato dal testo approvato l’espressione «accanimento terapeutico» si sarà ricordata che tale espressione è entrata nel linguaggio corrente a partire dalla lettera che l’allora cardinale Jean Villot scrisse il 3 ottobre 1970, a nome di Paolo VI, alla Federazione internazionale delle associazioni mediche cattoliche riunite a Washington per un congresso internazionale su «La protezione della vita».
Nessuno di questi documenti concede, sul confine della vita, l’ultima parola al medico.
Nessuno di questi documenti concede, sul confine della vita, l’ultima parola al medico.
Forse non è più il caso di scomodare le pronunce con le quali l’allora Sant’Uffizio, dagli Anni Trenta in poi, rispondeva affermativamente alla liceità morale della somministrazione ai malati terminali degli analgesici che per alleviare i dolori ne acceleravano la morte.
E forse non è neanche più il caso di ricordare la saggezza «del principio del buon samaritano» di Pio XII, quello che tutelava i casi difficili affidando i malati all’alleanza terapeutica tra i medici fedeli alla radice umanitaria della loro arte e i famigliari rispettosi del bene indisponibile contenuto in ogni palpito di un corpo vivo.
Per limitarci ai documenti che abbiamo citati, questi dicono ai cattolici che «davanti a un male incurabile oppure insopportabile, è lecito valutare i reali benefici che il malato può ricavare da terapie rischiose e dolorose». Nelle situazioni in cui i risultati deludono le speranze riposte nelle varie terapie, il Magistero insegna ai fedeli che è lecito interromperle, tenendo conto del «giusto desiderio dell’ammalato e dei suoi familiari, nonché del parere di medici veramente competenti».
Il rifiuto di sottoporsi a determinate cure speciali «non equivale al suicidio; significa piuttosto o semplice accettazione della condizione umana, o desiderio di evitare la messa in opera di un dispositivo medico sproporzionato ai risultati che si potrebbero sperare, oppure volontà di non imporre oneri troppo gravi alla famiglia e alla collettività».
E poi, «nell’imminenza della morte inevitabile nonostante i mezzi usati, è lecito in coscienza prendere la decisione di rinunciare a trattamenti che procurerebbero soltanto un prolungamento precario e penoso della vita, senza tuttavia interrompere le cure normali dovute all’ammalato in simili casi».
Negli Anni Ottanta molti cattolici difesero e votarono la legge 194, quella sull’interruzione volontaria della gravidanza. Chi non ha la memoria corta ricorda benissimo che tanti, soprattutto socialisti e radicali, invece non lo fecero perché volevano una legge diversa. All’arzigogolo giuridico con il quale, bypassando le pronunce di due tribunali, qualcuno è riuscito a far staccare il sondino che tutti conosciamo, il Palazzo ha risposto facendo pesare su quell’atto i contrappesi del positivismo giuridico in uso in Italia. La Corte Costituzionale, segnalando il vuoto legislativo, aveva invitato a legiferare producendo risposte. Per i pregiudizi di tutti contro tutti, in quel vuoto non c’è potuta entrare l’eutanasia. Ma non ci sono entrate neanche le idee.
Negli Anni Ottanta molti cattolici difesero e votarono la legge 194, quella sull’interruzione volontaria della gravidanza. Chi non ha la memoria corta ricorda benissimo che tanti, soprattutto socialisti e radicali, invece non lo fecero perché volevano una legge diversa. All’arzigogolo giuridico con il quale, bypassando le pronunce di due tribunali, qualcuno è riuscito a far staccare il sondino che tutti conosciamo, il Palazzo ha risposto facendo pesare su quell’atto i contrappesi del positivismo giuridico in uso in Italia. La Corte Costituzionale, segnalando il vuoto legislativo, aveva invitato a legiferare producendo risposte. Per i pregiudizi di tutti contro tutti, in quel vuoto non c’è potuta entrare l’eutanasia. Ma non ci sono entrate neanche le idee.
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