mercoledì 25 marzo 2009

Rapporto 2009 sullo stato del pianeta Terra


23/3/2009
PIERO BIANUCCI

Anche la Terra è un pianeta. E per noi è certamente il più importante. Niente di strano, dunque, se ne parliamo in questa rubrica che si intitola “Il Cielo”. Questa volta lo spunto ce lo offre il rapporto “State of the World 2009” del Worldwatch Institute, appena pubblicato in traduzione italiana, con una prefazione del segretario nazionale del Wwf Italia Gianfranco Bologna (Edizioni Ambiente, 350 pagine, 22 euro). Hanno lavorato a questo rapporto 40 ricercatori passando in rassegna i dati più recenti raccolti da 400 mila scienziati: climatologi, meteorologi, demografi, economisti, agronomi, geofisici, ecologi, oceanografi, glaciologi.

Al centro del Rapporto 2009 c’è il cambiamento climatico. Su questo tema, alcuni dati che fino a poco tempo fa erano controversi oggi sono completamente accertati. Vediamone alcuni tra i più significartivi.

Nel secolo scorso, la temperatura media del pianeta è aumentata globalmente di 0,7 gradi centigradi e gli ultimi dieci anni sono stati i più caldi da quando esistono registrazioni di temperatura regolari e affidabili.

Il mare si è sollevato al ritmo di 1,5 millimetri all’anno e anche qui si registra una forte accelerazione: dal 1993 ad oggi i mari sono saliti di 3 millimetri all’anno e si prevede che a fine secolo le acque si saranno alzate di almeno 60 centimetri, mentre i pessimisti, come Eric Rignot dell’Università della California, sostengono che già nel 2011 l’innalzamento delle acque oceaniche potrebbe raggiungere il metro, mettendo in crisi seicento milioni di persone che vivono nelle regioni costiere poco elevate (Bangladesh, molti arcipelaghi dell’oceano Pacifico, ma anche Venezia...).

L’anidride carbonica contenuta nell’atmosfera, responsabile da sola di metà dell’effetto serra, è passata in un secolo da 290 a 380 parti per milione e aumenta di 2 parti per milione all’anno. Altrettanto veloce è l’immissione di metano, un gas venti volte più efficiente dell’anidride carbonica nel produrre l’effetto serra.

Aggiungiamo che uno studio del nostro Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) pubblicato il 19 marzo su “Nature” prevede il collasso della calotta dell’Antartide occidentale sulla base di carotaggi che per la prima volta hanno spinto le indagini sul passato del clima fino a 5 milioni di anni fa.

Le ere geologiche più remote si misurano a centinaia di milioni di anni. I loro cambiamenti ambientali e biologici erano lentissimi. Poi è arrivato l’uomo, con la sua capacità di modificare il mondo attraverso gli strumenti della tecnica. Così, lasciatici alle spalle Pleistocene e Olocene, siamo entrati nell’Antropocene (da àntropos, uomo), l’era nella quale l’intervento della nostra specie è diventato così potente e da prevalere sui cambiamenti naturali connessi all’evoluzione biologica e a cicli astronomici come l’oscillazione dell’asse terrestre e il variare dell’eccentricità dell’orbita che il nostro pianeta percorre intorno al Sole.

“La forza nuova – scrive Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica ottenuto con studi sul cambiamento climatico e sul buco nell’ozono – siamo noi, capaci di spostare materia più di quanto facciano i vulcani e il vento messi insieme, di far degradare interi continenti, di alterare il ciclo dell’acqua, dell’azoto, del carbonio e di produrre l’impennata più brusca e marcata della quantità di gas serra in atmosfera degli ultimi 15 milioni di anni”.

Nel presentare il “Rapporto 2009” Gianfranco Bologna riporta alcune cifre che si riferiscono all’”impronta ecologica”. Il concetto di questa unità di misura molto di moda in ecologia fa riferimento alla quantità di suolo terrestre e di acqua di cui ogni uomo ha bisogno per vivere sfruttando solo gli “interessi” e non intaccando il “capitale” della natura. Una “impronta ecologica” di questo tipo permette di dare al nostro ideale abitante della Terra cibo, acqua e servizi sufficienti, e anche di riassorbire i rifiuti prodotti, mantenendo un sostanziale equilibrio.

Gli scienziati hanno calcolato che nel 2005 servivano circa 2 ettari globali a testa. Ebbene, tutti i paesi sviluppati vivono di gran lunga al di sopra delle possibilità concesse dalla natura alla comunità umana. L’impronta ecologica di un cittadino degli Stati Uniti presuppone lo sfruttamento di 9,4 ettari, quasi 5 volte la superficie realmente disponibile. L’impronta di un australiano vale 7,8. Quella di un inglese 5,3; di un italiano 4,8, di un tedesco 4,2. La Cina, essendo ancora in gran parte poco sviluppata, è in equilibrio, con una impronta di 2,1. L’India, mediamente ancora più povera della Cina, si ferma a 0,9. Dati simili troviamo per l’Africa: un etiope ha una impronta di 1,4. Ecco dove attingono, come in un sistema di vasi comunicanti, i paesi più ricchi per sostenere le loro mega-impronte.

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