sabato 11 luglio 2009

Il Cavaliere e l’arte di saper vincere



«Ho fatto fare un figurone a tutti gli italiani. Compreso Franceschini. E perfino Di Pietro». E’ un peccato che chiudendo i lavori del G8 Silvio Berlusconi non abbia detto sorridendo una battuta del genere. Il suo successo sarebbe stato completo.

L’uomo era in grado di farlo. Anche se un giorno ammiccò ridendo a un complimento che «il più grande battutista in circolazione è D’Alema» (che ricambiò dicendo che il Cavaliere era «umanamente proprio simpatico») i suoi stessi avversari sanno che a volte, con una battuta, sa spiazzare tutti. Di più: forse nessun altro, nella politica italiana, è in grado di sdrammatizzare anche la situazione più tesa con due parole giuste buttate lì al momento giusto. E’ la sua arte. Mica per altro chi lo ama lo chiama il Grande Comunicatore. Capace anche di spiritose auto-ironie.

Come la volta che, stufo di critiche, disse: «Faccio come zia Marina, che ha 80 anni e siccome nessuno le dice che è bella un giorno si è messa davanti allo specchio con un vestito a fiori e si diceva: Marina, cume te se bela!» Ecco: dopo i giorni dell’Aquila, lui non aveva alcuna necessità di dirsi «cume te se bel!». Commenti favorevoli, salvo eccezioni, su un po’ tutti i giornali italiani e stranieri. Immagini sorridenti in tutti i telegiornali del mondo. Massima attenzione planetaria sulle macerie dell’Abruzzo. Complimenti pressoché unanimi (e meritati) per il modo in cui, con la sponda di «San» Guido Bertolaso e dei suoi giovanotti della Protezione Civile, era riuscito in poche settimane a trasformare una grande caserma della Finanza in una struttura capace di ospitare al meglio un vertice internazionale. Per non parlare del più spettacolare dei «colpi» messi a segno: la sciolta disinvoltura con cui, nel giro di poche ore, si era trasfigurato da grande amico di George W. Bush in prezioso alleato di Barack Obama, generoso con lui di lodi oltre ogni attesa.

Insomma: meglio di così forse non poteva andare. E non c’è italiano che, per come si era messa nelle settimane scorse, non debba oggi sentirsi sollevato. Di più: fiero della prova di orgoglio e professionalità fornita, tutti insieme, all’Aquila. E questo al di là di ogni opinione: come disse anni fa Giuliano Amato denunciando i rischi di esporre il nostro Paese ai ceffoni internazionali in nome della polemica politica intestina anti-berlusconiana, «guai se cominciano a trattarci come un materasso su cui saltare, perché in quel materasso ci siamo anche noi». Tutti.

Per questo è un peccato che il Cavaliere non abbia saputo godersi fino in fondo, senza quelle piccole stizze, il momento di trionfo personale. Diranno i suoi amici: più che comprensibile, dopo tutto quello che gli era stato scaraventato addosso... Può darsi. Come è comprensibile che abbia apprezzato in conferenza stampa certe domande al miele, come quella di Franco Gizzi, per pura coincidenza fratello del capo- ufficio stampa della Regione pidiellina, così entusiasta della scelta aquilana («favolosa intuizione», «ci ha fatto sognare », «grazie per dedicare a noi in agosto le sue preziose ferie...») da essere amabilmente punzecchiato dallo stesso presidente: «E’ sicuro di essere un giornalista?».

Fatto sta che, quando un collega dell’Ansa gli ha chiesto se i risultati del vertice «che lei stesso ha definito eccellenti possano aiutare a rilanciare la politica estera del governo e se a partire da questi risultati si possano gettare le basi per riannodare il dialogo con l’opposizione in politica estera e in politica interna », Berlusconi ha deciso l’affondo. E dopo avere liquidato la sinistra («se cambiamo l’opposizione certamente sì...») e rivendicato una serie di risultati, ha chiuso: «Se questo vi sembra un governo che ha bisogno di un rilancio, è un giudizio che si distacca dalla realtà oggettiva. Vi consiglio di leggere meno giornali».

Ed è stato lì che, rifiutando quel minimo di garbo, generosità e allegria che altri vincitori avrebbero concesso nel momento dell’esultanza agli avversari (veri o presunti), il Cavaliere ha deciso di tenersi il successo aquilano tutto per sé. Peccato. Se oltre a Erasmo da Rotterdam («come diceva lui le decisioni più rappresentative sono spesso frutto di una lungimirante follia») avesse riletto anche Polibio, vi avrebbe trovato una traccia di antica saggezza: «Coloro che sanno vincere sono molto più numerosi di quelli che sanno fare buon uso della loro vittoria».

Gian Antonio Stella
11 luglio 2009

1 commento:

LUIGI A. MORSELLO ha detto...

Io non mi sento affatto sollevato, anzi, sono ancor più preoccupato per ciò il futuro riserva a noi tutti.