venerdì 2 ottobre 2009

MANGANO, TUTTO CASA E FAMIGLIA. DI SILVIO


La vera storia del boss di Porta Nuova emigrato a Milano e assunto da Berlusconi a Villa San Martino per la propria sicurezza

di Peter Gomez

GLI ALBERI stavano perdendo le foglie. Il lago di Como, visto da lontano, sembrava un lungo specchio di acciaio e mercurio. Era autunno. L’autunno del 1994. Il primo governo Berlusconi aveva già imboccato la discesa che lo avrebbe portato alla caduta. Ma, mentre i due uomini parlavano, né uno né l'altro immaginava l'imminente futuro o sapeva che quello sarebbe stato il loro ultimo incontro. Vittorio Mangano, che proprio per vedere con più tranquillità l'amico aveva affittato per quattro milioni di lire l'anno una stanza in un ufficio di un industriale del posto, aveva molto da chiedere. Marcello Dell'Utri, secondo l'accusa, aveva invece molto da dare.

Nell'aria, in quelle settimane, quasi sentivi ancora l'eco delle bombe di mafia che per due anni avevano messo a ferro e fuoco il Paese. Ma l'ideatore di Forza Italia, di fronte al boss del clan palermitano di Porta Nuova, appariva tranquillo. Ammiccava e prometteva nuove leggi: nuove norme che avrebbero dovuto aiutare questa Cosa Nostra tanto in difficoltà. Solo una cosa chiedeva Marcello, una sola: basta tritolo, basta omicidi, basta bordelli. Perché, come dicono in Sicilia, ci vuole silenzio per far volare la quaglia. Ecco, se si vuole capire quanto conti la partita che si sta giocando a Palermo, dove il sostituto procuratore generale, Nino Gatto, il 9 ottobre proseguirà la sua requisitoria nel processo d'appello contro il senatore azzurro già condannato a nove anni di reclusione per concorso in associazione mafiosa, bisogna cominciare da qui. Da Vittorio Mangano, l'uomo d'onore che ci restava male quando la stampa (sbagliando) lo definiva “lo stalliere di Arcore”. Anche se nel 2000 è morto per un cancro diagnosticato in ritardo, la sua non è una storia antica. È storia di adesso. Perché nei mesi immediatamente successivi alle stragi uno pezzo importante di una delle trattative tra Stato e mafia è passata attraverso di lui. Prima con gli incontri, nel novembre 1993, rimasti annotati sulle agende di Dell'Utri, dove si trovano frasi del tipo “Mangano Vittorio era a Milano per parlare di problema personale” o “Mangano verso il 30/11, cinque giorni prima convoca con precisione”. Poi con quelli di dodici mesi dopo.

Le leggi ad mafiam

Racconta Salvatore Cucuzza, il successore di Mangano sullo scranno di reggente della famiglia di Porta Nuova: “Vittorio mi disse che lui e Dell'Utri si erano visti per due volte, l'ultima prima di Natale. Dell'Utri era arrivato a Como in elicottero e promise di presentare in gennaio, parliamo del gennaio ’95, delle proposte molto favorevoli per la giustizia: una modifica del 41 bis, uno sbarramento per gli arresti per quanto riguarda il 416bis”. Una promessa, secondo il pg Gatto, poi mantenuta. O quasi. Il 20 dicembre 1994, dopo quatto mesi di lavoro a tappe forzate, la commissione Giustizia vota un testo di 22 articoli con i quali si riforma la custodia cautelare. L'arresto per mafia non è più obbligatorio e anche la durata della detenzione preventiva viene accorciata. Quel giorno l’Ansa annuncia che l’articolato “dovrà essere approvato dall’Aula dopo la pausa natalizia”.Ma poi accade l’imprevisto. La Lega Nord sfiducia Berlusconi. In gennaio diventa premier Lamberto Dini, appoggiato da Sinistra e Lega Nord. La riforma è rinviata e, con molte modifiche, viene approvata i primi di agosto tra le proteste dei magistrati.

Mangano intanto è di nuovo in carcere. Il 4 aprile 1995 viene arrestato permafiaedopoqualchemeseèaccusato pure di omicidio. Da quel giorno lui e Dell'Utri non si vedono più. E il loro diventa solo un muto dialogo a distanza, scandito da pubbliche dichiarazioni (“Mangano? Se fosse libero ci prenderei ancora un caffè”);rassicuranti visite in carcere di esponenti di Forza Italia; misteriosi incontri con una serie di amici comuni che a Milano gestivano delle cooperative di pulizie dal fatturato milionario. Poi il 21 luglio 2000 la morte e le sue ultime parole ai familiari: “Non si baratta la libertà con la dignità”.

Elogio dell’omertà

Vittorio Mangano diventa così “un eroe”. Un boss cui rendere un pubbli contributo, come fanno il premier Berlusconi e il suo braccio destro Dell'Utri, durante la campagna elettorale del 2008. “Dice bene Dell' Utri”, tuona il Cavaliere davanti ai militanti in festa, “Quando Mangano era in carcere malato, i pm gli dicevano che, se avesse detto qualcosa su di me, sarebbe andato a casa. Ma lui eroicamente non inventò mai nulla su di me. Quando era da noi si comportò benissimo, ma poi ebbe delle disavventure che l’hanno portato nelle mani di un’organizzazione criminale. Ma non mi risulta che ci siano sentenze definitive nei suoi confronti”. Le sentenze però risultano, eccome: Mangano è stato condannato in cassazione per fatti di mafia e di droga. In primo grado addirittura per omicidio. Quella di Berlusconi è insomma una bugia. Una balla che alle orecchie di chi conosce le cose di Cosa Nostra suona come un messaggio: state buoni, state zitti sul passato. E soprattutto non dite una parola sulla stagione delle bombe di mafia. Anche perché la presunta trattativa tra Dell'Utri e Cosa Nostra è, a ben vedere, soltanto una replica. Un remake in grande stile di ciò che era accaduto ad Arcore esattamente ventotto anni prima dove già gli uomini d'onore avevano fatto la guerra a Berlusconi, per poi fare la pace.

Due siciliani a Villa San Martino

Quando varca per la prima volta i cancelli di villa San Martino, ad Arcore, Vittorio Mangano sta per compiere 34 anni. Da quasi due anni è abituato a far la spola tra Palermo e Milano, dove divide un piccolo appartamento con il cognato: un operaio dell’Ansaldo, impegnato nel movimento sindacale. Tutto il suo parlare di lavoratori, di padroni, di comunisti, a Mangano non piace. Ma almeno fino alla primavera del 1974 – quando si trasferisce con moglie e figlie nella tenuta di Berlusconi – il giovane boss lo sopporta di buon grado: in fondo, più sta lontano dalla Sicilia e meglio è.

Palermo, infatti, gli va stretta. La questura già nel 1967 lo ha diffidato come persona pericolosa, e poliziotti e carabinieri da qualche tempo sembrano avercela particolarmente con lui. Nel giro di cinque anni ha collezionato una lunga serie di denunce, arresti e condanne per reati di ogni tipo. Procedimenti penali per truffa, assegni a vuoto, ricettazione, lesioni volontarie, tentata estorsione, che lo avevano portato in prigione per ben cinque volte (l'ultima volta proprio a Milano nel 1972). Mangano è insomma una testa calda. Ma ci sa fare. Per questo Cosa Nostra gli ha messo gli occhi addosso. Gli uomini d’onore lo hanno osservato in silenzio e in silenzio lo hanno visto crescere. Hanno apprezzato la sua capacitàdinonparlareconglisbirri,dirispettaregli anziani e le regole del carcere.

Nel 1969, all’Ucciardone, ha anche conosciuto Gaspare Mutolo, boss della famiglia di Partanna Mondello, e da quel giorno ha preso a frequentare assiduamente la gente di rispetto, guadagnandosi la stima e l’amicizia di uno dei tre capi assoluti della mafia dell’epoca: il “principe di Villagrazia” Stefano Bontate. Della sua rapida ascesa alla fine si rendono conto anche gli investigatori della Squadra mobile di Palermo, che il 26 ottobre del 1972 lo fermano su un’auto mentre era in compagnia di Gioacchino Mafara, trafficante di droga e “indiziato mafioso”. Mangano insomma vuole emergere. Non si considera un semplice criminale. Sente di poter fare e valere molto di più. Ricorda Francesco Scrima, ilc ugino del capomafia Pippo Calò: “Vittorio aveva un carattere particolare. Un carattere che definirei conviviale. Amava i bei vestiti e i modi raffinati”. Insomma, come dirà il giudice Paolo Borsellino, Vittorio è uno dei pochi mafiosi in grado di “mantenere i contatti con gli ambienti industriali del nord”. Così l’Onorata società lo promuove. Nel 1975 Mangano è ammesso proprio nel clan di Calò e Tommaso Buscetta, quello di Porta Nuova. Ma anche nella mafia la strada che conduce al successo è lunga e disseminata di ostacoli. E quando Mangano riesce ad approdare alla corte del trentasettenne Silvio Berlusconi, dove rimarrà almeno fino al 1976, si rende conto che la sua vita è a una svolta. Da quel momento niente sarà come prima.

Sei mastini al guinzaglio

La cronaca del suo arrivo ad Arcore e delle reali mansioni che è stato chiamato a svolgere è ricca di misteri, ambiguità e contraddizioni. Su un punto è certo: Mangano è legato a Dell’Utri, palermitano come lui, ma più giovane di un anno. Il 4 aprile 1995, proprio il boss racconterà ai magistrati: “Io e Marcelloci siamo conosciuti tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Settanta, quando lui gestiva la squadra di calcio della Bacigalupo all’Arenella. Dal nostro incontro casuale nacque un rapporto di conoscenza. Dell’Utri venne così a sapere che ero esperto di bestiame e di cavalli. Tre o quattro anni dopo mi telefonò per propormi un lavoro nella villa di Berlusconi”. Ufficialmente Mangano si trova così a dirigere “l’azienda agricola e la società ippica di cui Berlusconi era titolare”. “Mi occupavo un po’ di tutto”, dice, “dalla compravendita alla doma, all’addestramento dei cavalli. Vedevo Berlusconi ogni giorno e avevo con lui gli ordinari rapporti tra titolare e impiegato. Dell’Utri mi veniva a trovare spesso e io gli ho insegnato a montare”.

Ma in villa Mangano ha anche altri incarichi, molto più delicati. Per i coniugi Carla e Silvio Berlusconi avere in casa quell’uomo alto, forte, gentile, dai tratti del viso vagamente mediorientali, rappresenta una sicurezza. L’ombra della sua figura che passeggia nel parco tenendo al guinzaglio sei mastini napoletani sembra essere in grado di scoraggiare qualsiasi malintenzionato. E di malintenzionati in quegli anni ce ne sono davvero tanti. A partire dal 1972, la Lombardia fa i conti con una drammatica escalation di sequestri di persona: in provincia di Milano, dai tre rapimenti del 1973 si è passati a dieci soltanto nei primi mesi del 1974. Chiunque sia ricco – e Berlusconi lo è – teme per sé e per i propri cari.

“Silvio? Per me non è tranquillo. Ha una fifa da matti”, dirà ai carabinieri un amico del futuro Cavaliere, il principe Luigi D'Angerio di Sant'Agata, rimasto vittima di un tentativo di sequestro al termine di una cena a villa San Martino il 7 dicembre del 1974. “A quell'epoca lui e il suo autista giravano armati. Berlusconi aveva una pistola che teneva allacciata alla caviglia. Qualche volta alla sera si esercitava al tiro con Mangano nel parco della villa”, racconterà in un’intervista concessa poco prima di morire, Bill Polland, un insegnante privato d’inglese che nel 1974 visse per qualche mese ad Arcore . “Era un uomo di fiducia assoluta”, confermerà proprio Dell'Utri in aula, “tanto è vero che Berlusconi gli faceva accompagnare i figli solo da lui, neanche dall’autista”.

Tra i ragazzi del proprietario di Milano 2 e le due prime figlie di Mangano – Loredana e Cinzia – nasce così una vera e propria amicizia. Il piccolo Piersilvio adora il fattore siciliano che lo chiama con il nomignolo di Dudù, mentre Marina grazie a Vittorio impara subito ad andare a cavallo. Tanta dedizione viene ricompensata profumatamente: “Berlusconi mi retribuiva con la somma di 500.000 lire al mese”. È un salario da favola. Mangano se ne rende conto benissimo. Visitato da due medici del Tribunale il boss affermerà: «Nel 1972 lo stipendio di un magistrato era di 100 mila lire. Io prendevo cinque volte tanto e a un certo punto le cinquecentomila lire al mese sono diventate un milione!». Fatti i debiti calcoli è facile accorgersi come Mangano guadagnasse, ai valori odierni, più di 6.000 euro mensili.

Quelle cene in famiglia

Anche per questo Vittorio e sua moglie, Marianna, conserveranno sempre un ricordo bellissimo dei due anni formidabili trascorsi a villa San Martino. E per testimoniare il loro legame con la famiglia del futuro premier nel 1975 battezzeranno la loro terzogenita Marina. Il rapporto tra i Berlusconi e i Mangano in quel periodo è quasi alla pari.

Pure quando in villa ci sono ospiti di riguardo, il fattore e Marianna siedono a tavola con i padroni di casa e i loro amici. Accade, per esempio, nel dicembre del 1974, quando, al termine di una cena, un gruppo di mafiosi legati al boss, rapisce l'amico di Berlusconi, Luigi D'Angerio. Nella nebbia il commando blocca l'auto del principe di Sant'Agata e lo fa scendere a forza. Poi, dopo qualche chilometro, la macchina dei rapitori ha un incidente e D'Angerio riesce a fuggire. A casa a disperarsi, prima di scoprire che il sequestrato è libero, restano Berlusconi, il suo maestro d'inglese, e i suoi ospiti: Primo Cignoli e Attilio Capra. Il primo è un imprenditore che solo cinque settimane prima, il 27 ottobre 1974, era stato descritto da “L’espresso” come legato a Michele Sindona e controllore occulto di Interfinanza, una finanziaria che “senza alcuna autorizzazione, per cinque anni aveva operato come una banca, dilapidando i depositi raccolti tra gli emigranti siciliani”. Il secondo, Attilio Capra, è invece un commercialista, poi risultato iscritto, come Berlusconi, alla loggia massonica P2 (tessera 1764) che sarà più volte sfiorato da indagini riguardanti il riciclaggio, i sequestri di persona e il contrabbando di sigarette. Assieme a loro quella sera sono seduti a tavola anche Mangano e signora. A ricordarlo sarà proprio Mangano. Domanda il pubblico ministero: “Lei era presente alla cena?”. Mangano: “Certo, io ero nel... ero sempre lì con loro, con tutti”. Pm: “Cenava insieme allora?”. Mangano: “Sì, sì anche mia moglie cenava insieme”.

Ma come arriva Mangano ad Arcore? E soprattutto perché tra tanti fattori presenti nell'agricola brianza, alla fine la scelta cade proprio su di lui? Berlusconi e Dell’Utri saranno sempre molto avari di particolari nel rievocare l’assunzione – definita “casuale” – del pregiudicato Mangano. “Assumerlo”, dice nel 1987 il premier, “fu una mia scelta, su una rosa di nomi che mi vennero prospettati”. Dell'Utri aggiunge poi che a presentargli il boss fu il titolare di una lavanderia e di un negozio di articoli sportivi dirigente della Bacigalupo, definito “l’amico di una vita”. Cioè Gaetano Cinà , un signore basso e gentile, considerato dal tribunale uomo d'onore della famiglia mafiosa di Malaspina (un clan molto caro a Bernardo Provenzano), e imparentato attraverso la moglie con tutti i più celebri capimafia dell'epoca: da Bontade a Mimmo Teresi.

Esistono però delle altre versioni sull'inizio di quel rapporto di lavoro. A metterle a nero sono i carabinieri e i pentiti. Il 30 dicembre del 1974, i militari della stazione di Villasanta che indagano sul fallito sequestro D'Angerio, scrivono: “Dell’Utri [...] ha chiamato Mangano pur essendo perfettamente a conoscenza – è risultato dalle informazioni giunte dal Nucleo investigativo del gruppo di Palermo – del suo poco corretto passato”. Ancora più esplicito è Francesco Di Carlo, dal '74 a capo della potentissima famiglia di Altofone, e poi emigrato a Londra dove incontrerà Dell'Utri nel 1980 a una festa per il matrimonio di un suo complice. Di Carlo ricorda: “Incontrai Cinà, Bontade e Teresi a Milano. Erano particolarmente eleganti. Io domandai il perché e loromirisposerochedovevanoandaredaungrosso industriale milanese amico di Cinà e di Dell’Utri. E mi proposero di seguirli”. Di Carlo entra così nella sede dell’Edilnord . In macchina, Bontate gli ha spiegato che chi li attendeva aveva paura dei rapimenti, e che era necessario garantirgli protezione. Ma ecco che cosa accade, secondo il pentito, durante l’incontro: “Dottore, lei da questo momento può smettere di preoccuparsi. Garantisco io”, dice Bontade. “Vorrei, vorrei... Ma sa, già qui al nord ci sono tanti siciliani che non mi lasciano tranquillo..”. “La capisco”, risponde il capo dei capi, “ma adesso è tutto diverso. Lei ha già al suo fianco Marcello e io le manderò qualcuno che le eviterà qualsiasi problema con quei siciliani”.Berlusconi, ossequioso: “Non so come sdebitarmi, stia certo però che resto a sua disposizione per qualsiasi cosa”.

Chi erano i siciliani che non lasciavano tranquillo

Berlusconi? A spiegarlo è Salvatore Cucuzza, il successore di Mangano: “Vittorio mi disse di essere arrivato a Milano nel 1972-73 al seguito di Gaetano e Nino Grado e di Totuccio Contorno. Con loro realizzò diversi ‘lavoretti’, tra cui alcune estorsioni, anche ai danni delle proprietà di Berlusconi. Proprio per questo Berlusconi, che intendeva garantirsi da ulteriori attentati, lo assunse come fattore ad Arcore tramite Gaetano Cinà”. Mangano però continuava a fare il furbo: a organizzare truffe e addirittura sequestri di persona. Per questo “Berlusconi si rese conto che gli necessitava comunque una garanzia da parte di Cosa nostra”. Tramite Cinà venne così intavolata una trattativa direttamente con Bontate e Teresi. “Berlusconi”, spiega Cucuzza, “raggiunse con loro un accordo per il versamento di una tangente di 50 milioni l’anno. La stessa cifra che veniva prima versata a Mangano”.

“Latitanti ad Arcore”

A ben vedere, dunque, la mafia segue uno schema classico. Prima minaccia, taglieggia, ruba (proprio Dell'Utri ha ricordato che “effettivamente nel 1974 avvennero dei furti di quadri quando Mangano stava già ad Arcore”). Poi offre protezione e alla fine raggiunge un accordo. Lo dimostra, secondo la sentenza di primo grado, ciò che accade dopo il fallito sequestro D’Angerio. Mangano viene arrestato perché gli investigatori si sono accorti che deve ancora scontare una vecchia condanna per truffa. Nessuno però lo licenzia. Una volta scarcerato, il 22 gennaio 1975, torna in villa dove resta per molti mesi, tanto che ancora nell’ottobre del 1976 fisserà lì la sua residenza. E nella dependance di Villa San Martino, secondo alcuni pentiti, nasconde persino dei latitanti. Dell'Utri, quando gli contestano la cosa, fa il pesce in barile: “C’erano molte persone che andavano a trovarlo... Io ebbi il modo di vederne alcune (...). Mangano a volte mi presentava delle persone dicendo che erano dei suoi amici, ma non mi faceva nessun nome. Non si fanno ma i nomi quando si presenta una persona nel modo di Mangano”.

Poi, quando il suo spessore criminale è ormai evidente a tutti, spontaneamente decide di andarsene. Una decisione motivata da ragioni di “sensibilità”. “Un giornale locale”, ricorda Mangano, “pubblicò un articolo in cui venivo descritto come un soggetto pericoloso collegato con ambienti di mafia. Mi preoccupai molto soprattutto per l’immagine del dottor Berlusconi che rischiava di uscirne offuscata. Ne parlai quindi con il dottor Dell’Utri che mi fissò un appuntamento con il dottor Confalonieri. Nel colloquio con lui io gli espressi la mia intenzione di lasciare la villa per lo stato di disagio che si era creato. Confalonieri mi lasciò libero di decidere e non mi chiese di andarmene”. Il boss si piazza così in albergo del centro di Milano, l'Hotel Duca di York, da dove dirige un colossale traffico di eroina e organizza oscuri traffici con multinazionali americane e agenzie di pubblicità. Di tanto in tanto pranza con Dell'Utri o gli telefona. Con Berlusconi invece si fa vivo facendogli sentire una volta ancora il sapore del tritolo: il 26 maggio del 1975 una bomba distrugge il muro di cinta e a crollare il contro soffitto della casa del Cavaliere in via Rovani a Milano. La polizia ci mette però un po’ prima di capire che Berlusconi è nel mirino. A presentare la denuncia è infatti Walter Donati, uno dei suoi prestanome che, su chi sia il reale proprietario, non dice nemmeno un parola. Ma questa, come vedremo, è un'altra storia.

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