Da qualche giorno si sta lavorando di bulino, alla ricerca dell’incastro giusto. Ma oramai il dado è tratto: nei primi giorni di febbraio Gianfranco Fini sarà a Washington, ospite della Camera dei Rappresentanti e della sua leader, Nancy Pelosi. Nei prossimi giorni, quando si sarà trovato spazio nelle rispettive agende, verrà resa nota la data ufficiale dell’incontro. Certo, non è la prima volta che Fini entra a Capitol Hill, ma stavolta il passaggio può trasformarsi in una svolta nella carriera politica dell’ex leader di An, perché in questo caso è in atto un investimento politico da parte dell’amministrazione americana sul presidente della Camera italiana.
Sul piano formale e anche per effetto del proverbiale pragmatismo americano, da parte dell’Amministrazione non c’è alcuna intenzione di scavalcare il capo del governo italiano, ma è pur vero che dopo la ripetuta (e sgradita) sequenza di battute di Berlusconi sull’«abbronzatura» del presidente e di sua moglie, a Washington si cercano in Italia altri canali di interlocuzione. E per una serie di circostanze - talora volute, talora fortuite - Fini si è ritrovato in prima linea come interlocutore degli americani. Sin dalle prime settimane della sua amministrazione, il presidente Obama, di fatto, aveva affidato il dossier-Italia alla Pelosi e in questi mesi la speaker della Camera Usa, mentre accresceva in patria il suo personale carisma e il suo potere, ha via via costruito un rapporto con il presidente della Camera.
E’ stato Fini, nel febbraio 2009, ad invitare per la prima volta la Pelosi in Italia. In quella occasione la speaker della Camera Usa si mostrò commossa («Mama mia!», disse quando l’amico Gianfranco le regalò i certificati di nascita dei nonni italiani), ma significativa fu la sostanza degli incontri con Fini e di quello successivo con Berlusconi. La Pelosi lo disse poi ad Obama: l’Italia resta un alleato affidabile. E a settembre la speaker è tornata a Roma, accettando l’invito di Fini per il G8 dei presidenti delle Camere, una trasferta significativa perché in quei giorni al Congresso americano era in corso la bagarre sulla riforma sanitaria. Negli Stati Uniti Fini è stato già altre cinque volte. Il primo, pioneristico approdo (assieme a Tremaglia, La Russa, Selva e Malgieri) risale al 1995, poi sono seguiti viaggi ufficiali (2001, 2004, 2005, 2006) con incontri formali di livello ma mai finalizzati da parte degli americani a un «investimento» politico.
Ma stavolta - per effetto di un efficace lavorìo diplomatico dell’ambasciatore italiano negli Stati Uniti, Giuliomaria Terzi di Sant’Agata (uno degli artefici dello storico viaggio di Fini a Gerusalemme) e, per altri versi, di un personaggio apprezzato dai diplomatici per la sua riservatezza come Alessandro Ruben (che è diventato il vero “ministro degli Esteri” di Fini) - lo sbarco a Washington può lasciare il segno. Anche il presidente del Senato Renato Schifani intende recarsi a Washington, magari prima di Fini, ma anche in questo caso non è stata ancora fissata la data. In compenso, alla presidenza della Camera, immaginano di poter utilizzare i 70-80 giorni che mancano allo sbarco a Washington, per riservatamente verificare le possibilità di un incontro, oltreché col vicepresidente Joe Biden, anche con Barack Obama.
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