La Costituzione, all’art. 74, dice “Il presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge questa deve essere promulgata”. Negli ultimi tempi su questo potere si è discusso, ritenendo alcuni che il Capo dello Stato debba intervenire più di frequente e in modo più penetrante, ritenendo altri, viceversa, che nell’esercitarlo il Quirinale si faccia troppo sentire. La difficoltà della situazione attuale, caratterizzata dall’approvazione continua di atti legislativi di dubbia costituzionalità, è ben testimoniata dalla novità recente di una promulgazione, accompagnata però da rilievi sostanziali alla legge.
Recentemente l’on. Berlusconi, fra le numerose idee di riforma, ha accennato anche a una ridefinizione dei rapporti fra presidente della Repubblica e presidente del Consiglio. Immagino che la “ridefinizione” riguardasse anche l’art. 74 e la direzione è ben chiara. D’altra parte invece, oggi, in un’intervista a Repubblica, l’ex presidente Ciampi, indignato e scosso dal degrado crescente delle istituzioni e dal comportamento di chi le incarna, pur non volendo dare consigli a nessuno, sembra indurre a maggiore intransigenza nei confronti di leggi pericolose per il funzionamento dello Stato. Come deve muoversi il presidente della Repubblica nell’esercizio di questo potere?
Il suo non è un compito facile, stretto fra la necessità di svolgere il ruolo di garanzia e la preoccupazione di non dar luogo a pretesti per denunciare intenti politici nei suoi dinieghi. Le istituzioni di garanzia sono essenziali al funzionamento dello Stato di diritto: la Costituzione affida il controllo del rispetto delle regole e dei limiti a organi neutrali, presidente della Repubblica e Corte Costituzionale in primo luogo. Diversa è la loro funzione; assai più penetrante e decisivo è il controllo della Corte che può, dichiarando illegittima una legge, privarla di ogni efficacia .
Al capo dello Stato che “rappresenta l’unità nazionale” (art. 87) sono affidati poteri molteplici, in parte legati a questa posizione anche simbolica e, più spesso, al suo ruolo di garanzia; mai tuttavia, poteri di ultima decisione. In una Repubblica parlamentare il presidente non ha, e non può avere, un ruolo politico. Il ruolo di garanzia è esercitabile soltanto da chi è in posizione imparziale altrimenti si inseriscono elementi di ambiguità che lo neutralizzano: la necessità di assumere decisioni politiche costringe “a prendere parte”. Le decisioni politiche perciò spettano ad altri: al Parlamento nella funzione legislativa, al Consiglio dei ministri nella funzione di governo. Purché nel rispetto della Costituzione. Perciò il controllo è essenziale e resta funzione puramente neutrale anche se, come tutti gli atti del presidente ha inevitabili riflessi politici dirigendosi a soggetti politici e incidendo su atti politici. Per questo, per non attribuirgli poteri di decisione definitiva e lasciare l’ultima parola al Parlamento, l’art. 74 consente soltanto al capo dello Stato il rinvio alle Camere per una nuova deliberazione, obbligandolo poi a promulgare. Se gli fosse dato un potere di veto assoluto avrebbe invece l’ultima parola e potrebbe bloccare ogni politica a lui sgradita. È dunque un controllo giuridico che per il presidente è doveroso esercitare; le ragioni per le quali la legge può essere “rinviata” riguardano solo la legittimità costituzionale. Livio Paladin parlava anche di “merito costituzionale”, come contrarietà alla Costituzione pur in mancanza di puntuale contrasto. È un fatto accertato che nei messaggi presidenziali le motivazioni del rinvio sono sempre ampiamente e puntualmente argomentate. Eppure non sono mancate le polemiche. Ma è un potere che “pesa”? Di fronte a un Parlamento i cui “eletti” sono “nominati” da vertici cui debbono obbedienza e, grazie alla legge elettorale, la maggioranza ha assoluto dominio, è difficile pensare a modifiche sostanziali apportate dopo il rinvio. Un potere inutile? Certamente no, purché il popolo sovrano sia vigile e comprenda il segnale che parte dal Quirinale: un segnale forte che dovrebbe far riflettere gli elettori. Si discute se il diniego di promulgazione possa essere assoluto almeno in un’ipotesi, l’attentato alla Costituzione, il sovvertimento dei suoi principi fondamentali, immodificabili anche con il procedimento dell’art. 138.
È un reato infatti, del quale lo stesso capo dello Stato, garante dell’integrità del sistema, è chiamato a rispondere (art. 90), perciò non potrebbe concorrere mettendo la sua firma. Un difficile coraggio, che solo un consenso ampio e forte potrebbe consentire.
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