Quando si contempla B, non si sfugge al dubbio: l’incarnato di Arcore è come un thriller
di Luca Telese
di Luca Telese
A me, se guardo la faccia di Berlusconi, viene in mente Berlino. Non so se anche a voi Berlino fa questo effetto: ogni volta che ci vai c’è un palazzo che prima non c’era, e ne è scomparso uno che c’era. A me ogni volta che vedo la faccia di Berlusconi, in questi giorni, viene un dubbio: ma ha avuto la scarlattina o si è fatto un lifting? (forse tutt’e due).
Mi secca ammetterlo, ma l’enigma avvince: come disse splendidamente Gaber: “Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Il mistero del volto di Berlusconi, dopo quello della sindone, si è inchiavardato in noi. Lo so che questa domanda non la dovrei fare, ma è più forte di me: sono appassionato dall’idea dell’incarnato di Arcore come un cantiere aperto, un itinerario turistico, un luogo del possibile, un posto dove ogni volta scopri cose nuove: restauri, nuovi impianti, grandiose architetture. Berlusconi è l’unico leader per cui, quando scartabelli in archivio e salta fuori una vecchia foto pensi: “Toh, era ancora pelato”.
Un paio di mesi fa su Sky, tuonava contro i magistrati. Quel che diceva non lo ricordo più, ma ho chiaro, invece, che vedendo le occhiaie alla zuava che lo affliggono ultimamente ho pensato: poverino, gli occhi sono strabuzzati fuori dalle orbite, urge una blefaroplastica (prima di Berlusconi non pensavamo che un uomo potesse fare la blefaroplastica. Poi l’ha fatta anche Di Pietro, domani toccherà a noi). Dal giorno dopo, a ogni dichiarazione, mi preoccupo di verificare se c’è stato un intervento di manutenzione. Mi ha così avvinto, il tema, che posso guardarlo anche senza volume, ma non posso staccarmi dallo schermo. Quando penso ai crateri dell’epidermide lunare di B. ogni pregiudizio cade di fronte all’ammirazione per lo sforzo titanico. La Sagrada familia, a Barcellona è un’opera incompiuta e diroccata, ma attira comunque milioni di turisti. Lui pure.
Marco Belpoliti ha scritto un mirabile saggetto per Guanda (Il corpo del capo), su questo incessante lavoro di scavo, retrodatandolo agli anni Settanta, quando i primi piani del Cavaliere già occhieggiavano a Hollywood. Quando guardo le vecchie foto - cappello sulle ventitrè e gessato - ho la certezza che l’uomo della Fininvest si ispirasse a La fuga, il film in cui Humprey Bogart si toglie le bende dopo un’operazione cambia-connotati. Ma mi sento come Pasolini: io so, ma non ho le prove. B. è come quei thriller in cui – anche se non sono di ottima fattura – non smetti di leggere perché vuoi capire come va a finire. Ecco, quando guardo la sua faccia, di questi tempi, sono curioso del finale. Ai tempi del trapianto trovai letterario il duello fra i due maghi della chirurgia tricologica che se lo disputarono. Compulsai avidamente lo scoop di Francesco Alberti, che sul Corriere della Sera riuscì a intervistare Piero Rosati, il chirurgo estetico di Ferrara autore del famoso “asfaltaggio” del Cavaliere: “Il presidente non ha fatto una piega – riferì Rosati – ha una tempra di ferro”. E aggiunse: “Durante l’intervento raccontava barzellette sulla calvizie”. Veltroni imbroccò una battuta sublime: “In ogni manifesto ha la chioma più folta: alla prossima campagna sembrerà Jimi Hendrix”. Anni dopo riuscii ad ottenere la versione del professor Buttaffarro, il medico piemontese, che per primo aveva visitato B. Serio, sabaudo, riservato: un maestro. Aveva spiegato al premier che trattandosi di autotrapianto non si potevano fare miracoli. Se si fosse affidato a lui, che prometteva di meno, B. non si sarebbe trovato in testa quei filari che fanno vigneto. E non sarebbe nata la saga della cheratina tritata che si deve spolverare per tappare i vuoti. Ma i suoi tentativi, anche se falliscono hanno contorni epici. Avvincono perché sono sempre generosi. Ecco perché, da dopo la scarlattina, studio le sue foto con morbosa curiosità. Non quelle che Mity Simonetto, con amorevole cura seleziona per il Giornale: lì Silvio è piacevolmente ibernato in un eterno effetto flou. Ringiovanisce a ogni scatto: unto, sì, ma del Photoshop. Nelle foto di cronaca invece, assediato dalla tirannia del tempo (servirebbe un lodo Dorian Gray), si difende come può, con fondo tinta e fard. Una sinistra che non sia schiava dell’orribile germe dell’antiberlusconismo dovrebbe aprire al dialogo: henné per D’Alema, liposuzione per Veltroni, trucco-parrucco (modello luciodalla) per Bersani. Così, da domani, potremmo iniziare ad appassionarci anche a loro. Urge un appello a Bondi: l’incarnato di Arcore diventi al più presto patrimonio dell’Unesco.
Mi secca ammetterlo, ma l’enigma avvince: come disse splendidamente Gaber: “Non temo Berlusconi in sé, temo Berlusconi in me”. Il mistero del volto di Berlusconi, dopo quello della sindone, si è inchiavardato in noi. Lo so che questa domanda non la dovrei fare, ma è più forte di me: sono appassionato dall’idea dell’incarnato di Arcore come un cantiere aperto, un itinerario turistico, un luogo del possibile, un posto dove ogni volta scopri cose nuove: restauri, nuovi impianti, grandiose architetture. Berlusconi è l’unico leader per cui, quando scartabelli in archivio e salta fuori una vecchia foto pensi: “Toh, era ancora pelato”.
Un paio di mesi fa su Sky, tuonava contro i magistrati. Quel che diceva non lo ricordo più, ma ho chiaro, invece, che vedendo le occhiaie alla zuava che lo affliggono ultimamente ho pensato: poverino, gli occhi sono strabuzzati fuori dalle orbite, urge una blefaroplastica (prima di Berlusconi non pensavamo che un uomo potesse fare la blefaroplastica. Poi l’ha fatta anche Di Pietro, domani toccherà a noi). Dal giorno dopo, a ogni dichiarazione, mi preoccupo di verificare se c’è stato un intervento di manutenzione. Mi ha così avvinto, il tema, che posso guardarlo anche senza volume, ma non posso staccarmi dallo schermo. Quando penso ai crateri dell’epidermide lunare di B. ogni pregiudizio cade di fronte all’ammirazione per lo sforzo titanico. La Sagrada familia, a Barcellona è un’opera incompiuta e diroccata, ma attira comunque milioni di turisti. Lui pure.
Marco Belpoliti ha scritto un mirabile saggetto per Guanda (Il corpo del capo), su questo incessante lavoro di scavo, retrodatandolo agli anni Settanta, quando i primi piani del Cavaliere già occhieggiavano a Hollywood. Quando guardo le vecchie foto - cappello sulle ventitrè e gessato - ho la certezza che l’uomo della Fininvest si ispirasse a La fuga, il film in cui Humprey Bogart si toglie le bende dopo un’operazione cambia-connotati. Ma mi sento come Pasolini: io so, ma non ho le prove. B. è come quei thriller in cui – anche se non sono di ottima fattura – non smetti di leggere perché vuoi capire come va a finire. Ecco, quando guardo la sua faccia, di questi tempi, sono curioso del finale. Ai tempi del trapianto trovai letterario il duello fra i due maghi della chirurgia tricologica che se lo disputarono. Compulsai avidamente lo scoop di Francesco Alberti, che sul Corriere della Sera riuscì a intervistare Piero Rosati, il chirurgo estetico di Ferrara autore del famoso “asfaltaggio” del Cavaliere: “Il presidente non ha fatto una piega – riferì Rosati – ha una tempra di ferro”. E aggiunse: “Durante l’intervento raccontava barzellette sulla calvizie”. Veltroni imbroccò una battuta sublime: “In ogni manifesto ha la chioma più folta: alla prossima campagna sembrerà Jimi Hendrix”. Anni dopo riuscii ad ottenere la versione del professor Buttaffarro, il medico piemontese, che per primo aveva visitato B. Serio, sabaudo, riservato: un maestro. Aveva spiegato al premier che trattandosi di autotrapianto non si potevano fare miracoli. Se si fosse affidato a lui, che prometteva di meno, B. non si sarebbe trovato in testa quei filari che fanno vigneto. E non sarebbe nata la saga della cheratina tritata che si deve spolverare per tappare i vuoti. Ma i suoi tentativi, anche se falliscono hanno contorni epici. Avvincono perché sono sempre generosi. Ecco perché, da dopo la scarlattina, studio le sue foto con morbosa curiosità. Non quelle che Mity Simonetto, con amorevole cura seleziona per il Giornale: lì Silvio è piacevolmente ibernato in un eterno effetto flou. Ringiovanisce a ogni scatto: unto, sì, ma del Photoshop. Nelle foto di cronaca invece, assediato dalla tirannia del tempo (servirebbe un lodo Dorian Gray), si difende come può, con fondo tinta e fard. Una sinistra che non sia schiava dell’orribile germe dell’antiberlusconismo dovrebbe aprire al dialogo: henné per D’Alema, liposuzione per Veltroni, trucco-parrucco (modello luciodalla) per Bersani. Così, da domani, potremmo iniziare ad appassionarci anche a loro. Urge un appello a Bondi: l’incarnato di Arcore diventi al più presto patrimonio dell’Unesco.
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