Ahiahiahi, signora Longari, dove andremo a finire. Ora lo dice anche un presidente emerito della Repubblica, già governatore della Banca d’Italia, senatore a vita, che Giorgio Napolitano dovrebbe o almeno potrebbe smettere di firmare leggi vergogna. Parla un signore che alcune le rispedì al mittente, come la Gasparri-1 sulle tv, l’ordinamento giudiziario Castelli e la Pecorella (che aboliva l’appello del pm, ma non dell’imputato).
Ma altre, come il decreto salva-Rete4 che consentiva a Berlusconi di evitare lo spegnimento della sua tv abusiva (previsto dalla sentenza della Consulta del 2002) e fu firmato alla vigilia del Natale 2003 dallo stesso beneficiario, le promulgò.
Ma anche per lui c’è un limite a tutto. Anche all’indecenza.
“Io – premette nell’intervista a Repubblica – non do consigli a nessuno, meno che mai a chi mi ha succeduto al Quirinale”. Poi però li dà eccome: “Il capo dello Stato, tra i suoi poteri, ha quello della promulgazione. Se una legge non va, non si firma”.
L’articolo 74 della Costituzione dice proprio così: “Il Presidente della Repubblica, prima di promulgare la legge, può con messaggio motivato alle Camere chiedere una nuova deliberazione. Se le Camere approvano nuovamente la legge, questa deve essere promulgata”. Non precisa che, per essere respinta, debba essere “manifestamente incostituzionale”, come invece sostiene l’attuale inquilino del Quirinale.
Il 23 luglio 2008, quando in meno di 24 ore promulgò la legge Alfano varata in 25 giorni da Camera e Senato per regalare l’impunità al premier, il Colle emise uno stravagante comunicato: “Punto di riferimento per la decisione del Capo dello Stato è stata la sentenza n. 24 del 2004 con cui la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge n. 140 del 20/6/2003 (il lodo Schifani, ndr) che prevedeva la sospensione dei processi che investissero le alte cariche dello Stato. A un primo esame, quale compete al capo dello Stato in questa fase, il ddl approvato il 27 giugno dal Consiglio dei ministri è risultato corrispondere ai rilievi formulati in quella sentenza”.
Ora sappiamo che non era vero niente: la Consulta ha bocciato l’Alfano proprio richiamandosi alla sentenza che bocciava la Schifani e che non diceva ciò che le faceva dire il Quirinale.
Diversamente dal Colle, se n’erano accorti fin da subito 100 giuristi di chiara fama e quattro presidenti emeriti della Consulta in un appello che definiva l’Alfano “manifestamente incostituzionale”; ma anche comici come Grillo, politici come Di Pietro, direttori di giornale come Flores d’Arcais e Padellaro. Quest’ultimo espresse “profondo disagio” sull’Unità, beccandosi le rampogne del Pd, del Riformatorio, del Pompiere della Sera e di tutti i tromboni del “non tirare la giacchetta al capo dello Stato”.
Baggianate che son tornate a risuonare quando Il Fatto Quotidiano ha inviato al Quirinale le firme di 80 mila lettori sotto l’appello a non firmare la vergogna mafiosa dello scudo fiscale.
Risultato: l’ufficio stampa del Quirinale ci inviò una letterina piccata (come vi siete permessi?).
Intanto il capo dello Stato redarguiva un cittadino che osava domandargli perché firmasse tutto: “Tanto, se non firmo una legge, me la rimandano uguale”.
Ora Ciampi, noto piromane, invita a “resistere”: “Non si deve usare come argomento che tanto, se il Parlamento riapprova la legge respinta, il presidente è poi costretto a firmarla. Intanto non si promulghi la legge in prima lettura, per lanciare un segnale forte a chi vuole alterare le regole, al Parlamento e all’opinione pubblica”.
Anche perché, se una legge resta incostituzionale anche in seconda lettura, il presidente può comunque rifiutare di promulgarla e dimettersi.
La Costituzione è un po’ più importante di una poltrona.
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