La scelta strategica sta maturando. Berlusconi pare convincersi che il suo destino non dev’essere per forza quello del Caimano. Affrontando a morsi i nemici può sgominarli una, due volte, ma fatalmente verrebbe l’ora della sconfitta, e sarebbe tragica, come nel film di Moretti. Senza scomodare la Buonanima o Bettino, l’aggressione ha fatto vivere fisicamente al premier l’odio che parte della sinistra nutre verso di lui. Gli ha spalancato gli occhi. Nello stesso tempo lascia intravedere al Cavaliere una via d’uscita più degna, onorevole.
Che all’atto pratico s’incarna nella bonomia emiliana disincantata e sorridente di Pierluigi Bersani: finalmente, s’è detto Berlusconi, un potenziale vero interlocutore dall’altra parte. Venerdì sera a cena, in un consesso di amici, ha scoperto le carte: «Con Bersani penso di potermi fidare. Mi sembra ragionevole, dialogante. E pure lui ha interesse a riformare la giustizia, gli serve per non farsi sbranare da Di Pietro. Ho intenzione di provarci sul serio».
E sarebbe una grande svolta, poiché il vero ostacolo a qualunque colloquio coi nipoti di Togliatti finora era stato Berlusconi medesimo. Con i suoi sbalzi d’umore. Con quelle sbandate incontrollabili che D’Alema ha sperimentato sulla propria pelle, e di recente pure Veltroni. Se il dubbio nel Pd è «faremo la stessa fine?», il Cavaliere sa che questo è l’ultimo treno, non gli saranno concesse altre chances. Per cui sta apparecchiando un percorso politico dove la massima urgenza, forse addirittura prima delle leggi «ad personam», diventa quella di isolare gli «odiatori» e restaurarsi l’immagine: da qui l’irritazione manifestata a cena nei confronti del direttore generale Rai, reo di non aver messo alla porta i Santoro, i Travaglio e tutti i comici che gli guastano la reputazione. In cambio di un altro clima, Berlusconi pare orientato a gesti concreti.
Si interroga, ad esempio, se è ancora il caso di trasformare le prossime Regionali in un referendum su se stesso, drammatizzandolo al parossismo. Col risultato magari di strappare alla sinistra una Regione in più, ma di affondare l’unico personaggio, da quelle parti, disposto a dargli retta: cioè Bersani. Gettarsi in prima persona nella campagna elettorale, metterci la faccia, o lasciare che se la vedano il partito e i candidati vari? La seconda ipotesi sembra, di ora in ora, la più gettonata. Non a caso, il Cavaliere ha concesso la massima autonomia in materia ai suoi tre coordinatori nazionali. E ha dato piena fiducia a Fitto, il quale se la vedrà lui con Casini per trovare un candidato comune in Puglia, casomai il Pd dovesse confermare Vendola.
Tutti ragionamenti che Berlusconi ha trovato superfluo sviluppare ieri con Bossi, Tremonti, Cota e Calderoli, accolti verso sera a Villa San Martino dopo una giornata trascorsa, informa Bonaiuti, «nuovamente al lavoro, tra telefonate, visite e studio di dossier». Come sempre quando arriva l’Umberto, gare di barzellette, canzoni dialettali, grande allegria ruspante. La Lega è al settimo cielo per le storiche candidature di Cota in Piemonte e di Zaia in Veneto (quest’ultima decisa ieri). L’accordo col Pdl è stato messo addirittura nero su bianco: come in un protocollo notarile con tanto di firme in calce dei coordinatori berlusconiani da una parte, di Calderoli dall’altra. Vi si prevede quanti assessori andranno ai due partiti in caso di vittoria. E si stabilisce che il ministero di Zaia (le Politiche agricole) verrà riciclato dopo le elezioni. Se la Lega vince in entrambe le Regioni, passerà allo spodestato Galan. Viceversa, se lo terrà ben stretto il Carroccio. E a Galan il premier dovrà trovare posto in qualche ente di Stato.
Che all’atto pratico s’incarna nella bonomia emiliana disincantata e sorridente di Pierluigi Bersani: finalmente, s’è detto Berlusconi, un potenziale vero interlocutore dall’altra parte. Venerdì sera a cena, in un consesso di amici, ha scoperto le carte: «Con Bersani penso di potermi fidare. Mi sembra ragionevole, dialogante. E pure lui ha interesse a riformare la giustizia, gli serve per non farsi sbranare da Di Pietro. Ho intenzione di provarci sul serio».
E sarebbe una grande svolta, poiché il vero ostacolo a qualunque colloquio coi nipoti di Togliatti finora era stato Berlusconi medesimo. Con i suoi sbalzi d’umore. Con quelle sbandate incontrollabili che D’Alema ha sperimentato sulla propria pelle, e di recente pure Veltroni. Se il dubbio nel Pd è «faremo la stessa fine?», il Cavaliere sa che questo è l’ultimo treno, non gli saranno concesse altre chances. Per cui sta apparecchiando un percorso politico dove la massima urgenza, forse addirittura prima delle leggi «ad personam», diventa quella di isolare gli «odiatori» e restaurarsi l’immagine: da qui l’irritazione manifestata a cena nei confronti del direttore generale Rai, reo di non aver messo alla porta i Santoro, i Travaglio e tutti i comici che gli guastano la reputazione. In cambio di un altro clima, Berlusconi pare orientato a gesti concreti.
Si interroga, ad esempio, se è ancora il caso di trasformare le prossime Regionali in un referendum su se stesso, drammatizzandolo al parossismo. Col risultato magari di strappare alla sinistra una Regione in più, ma di affondare l’unico personaggio, da quelle parti, disposto a dargli retta: cioè Bersani. Gettarsi in prima persona nella campagna elettorale, metterci la faccia, o lasciare che se la vedano il partito e i candidati vari? La seconda ipotesi sembra, di ora in ora, la più gettonata. Non a caso, il Cavaliere ha concesso la massima autonomia in materia ai suoi tre coordinatori nazionali. E ha dato piena fiducia a Fitto, il quale se la vedrà lui con Casini per trovare un candidato comune in Puglia, casomai il Pd dovesse confermare Vendola.
Tutti ragionamenti che Berlusconi ha trovato superfluo sviluppare ieri con Bossi, Tremonti, Cota e Calderoli, accolti verso sera a Villa San Martino dopo una giornata trascorsa, informa Bonaiuti, «nuovamente al lavoro, tra telefonate, visite e studio di dossier». Come sempre quando arriva l’Umberto, gare di barzellette, canzoni dialettali, grande allegria ruspante. La Lega è al settimo cielo per le storiche candidature di Cota in Piemonte e di Zaia in Veneto (quest’ultima decisa ieri). L’accordo col Pdl è stato messo addirittura nero su bianco: come in un protocollo notarile con tanto di firme in calce dei coordinatori berlusconiani da una parte, di Calderoli dall’altra. Vi si prevede quanti assessori andranno ai due partiti in caso di vittoria. E si stabilisce che il ministero di Zaia (le Politiche agricole) verrà riciclato dopo le elezioni. Se la Lega vince in entrambe le Regioni, passerà allo spodestato Galan. Viceversa, se lo terrà ben stretto il Carroccio. E a Galan il premier dovrà trovare posto in qualche ente di Stato.
1 commento:
Si chiederà Pier Luigi Bersani, come se lo chiede ogni volta Antonio Di Pietro: "Dov'è la fregatura?".
Temo di no e finirà anche lui in pellicceria.
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