sabato 20 febbraio 2010

Gianni Letta, le crepe del viceré e la “partita” delle macerie


SCANDALO APPALTI, I FALCHI ALL’ASSALTO.

LUI: “TURBATO DALL’INCHIESTA, CONTRO DI ME FUOCO AMICO”.

B. LO DIFENDE: “IDEALE PER IL QUIRINALE”

di Luca Telese

“Questo è fuoco amico!”. E così, alla fine, siamo arrivati al cedimento strutturale del mito cotonato. Sta fluttuando su Palazzo Chigi, in queste ore concitate, una nuvola di polvere da crollo sismico, che si fonde con la nuvola di cipria sollevata dalle crepe su una facciata che pareva eterna. È la lesione di una certezza infrangibile, di uno status di intoccabilità para-istituzionale, di una condizione mai goduta da nessun altro nella Prima e nella Seconda Repubblica, nemmeno da Andreotti, che era nato e cresciuto nel cuore del potere secolare. Anche i boatos ufficiosi attribuiti al sottosegretario, quelli che un tempo erano aggraziati come i cori delle voci bianche nelle chiese romane, ora si tingono di una sonorità recriminatoria: “Questo non è un complotto dei nostri avversari politici. Questa non è una guerra dichiarata e convenzionale... quello contro di me è un fuoco amico”.

Vero o apocrifo, questo Gianniletta è comunque inaudito. Come sono lontani i tempi in cui Berlusconi gli diceva sorridente: “Gianni, ti riporto a Piazza Colonna!”. Era un modo per raccontare che il potere lettiano transitava simbolicamente solo di pochi metri: dalla sede de Il Tempo di “Palazzo Wedekind” (dove Gianni aveva costruito le fondamenta della sua storia) a quella del governo, di Palazzo Chigi (dove fino a ieri stava prendendo le misure per ascendere in gloria al Colle).

Gianni Letta in questo quadrilatero di due chilometri quadri di Roma, quello che presidia Montecitorio e che guarda al Quirinale, ci ha passato una vita. Si è così incastonato nella planimetria di questa città monumentale.

L’incarnato di Gianni Letta, ormai da un ventennio, ha assunto la stessa tonalità bianco meringa – a metà strada nella scala di toni fra il perla e l’ultravioletto – che alcuni restauratori filologi scelsero nell’anno 2000 per restaurare la facciata della sede del governo. Non il rosso sanguinaccio della Roma andreottiana, quella dove il Divo Giulio raccontava di giocare da bambino vicino al “Palazzo dei puzzoni” (perché Montecitorio, spiegava Andreotti, nei primi anni del Novecento era l’unico Palazzo con caldaia fumigante della città). No, il democristianesimo di Letta aveva un altro segno: era sottrazione di sangue, di emozioni, tensione verso l’ultraterreno. Letta non avrebbe mai potuto essere un sorriso mondano e una gobba di genio contornata da una folla di Pomicini ed Evangelisti, “A Fra’, che te serve” (requiescat). Letta era iperuranio, intoccabile, mai una intervista, mai un capello fuori posto, e la vox populi che raccontava delle telefonate della mattina presto – il telegrafo del potere – per parlare di tutti e con tutti: in quella compattezza cotonata c’era un segno di trascendenza, che poteva coniugarsi perfettamente con i tratti megalomani del berlusconismo, aspirare a diventarne l’ala mistica. Ma ora si vedono crepe anche nella facciata ecumenica, nel volto buono del presidenzialismo ridens.

È molto più dell’effetto collaterale di una microvicenda giudiziaria, quello che si sta celebrando in queste ore. È la fine di un sistema, di uno stile di vita. Ed è soprattutto una notte dei lunghi coltelli che si compie tutta nelle segrete stanze del centrodestra. Non c’entra l’opposizione, questa volta. Così come è stato per Bertolaso, la colonna sonora delle ombre che lambiscono la figura del sottosegretario è un silenzio assordante.

Ieri, guardando le agenzie, ciò che incredibilmente mancava – nello sterminato mare delle dichiarazioni – non erano quelle dei (sempre garbatissimi) avversari. Ma la voce dei (sempre più presunti) alleati. Ieri, nel mare delle parole di giornata, la voce “solidarietà” era stata soppressa. Nessuno si spende per Gianni, così come tutti furono parchi per Guido. Adesso ti dicono che Brunetta, Tremonti e Cicchitto si sfregano le mani, che i falchi fanno festa. Ed è ovviamente una di quelle menzogne che si avvicinano all’autenticità, perché se fossero tutte balle, almeno una paroletta ipocrita verrebbe.

La verità è che in tempi di nouveaux régime, Letta è stato più di un principe e più di un cardinale, un vicerè, proprio come Bertolaso. E il Bertolaso che ieri circolava a Montecitorio privo del suo immancabile maglioncino blu da protettore civile, sembrava curiosamente – sull’onda della suggestione associativa – un Letta più giovane e grigiovestito. Il Letta cardinalizio, teso all’assalto al Colle – invece – negli ultimi tempi, aveva preso a mimare l’aria di un Bertolaso più vecchio e saggio, ad accarezzare l’idea di passare dalla santità del potere invisibile alla carnalità dell’eroismo popolare. Pochi giorni fa aveva scherzato con Berlusconi fingendosi cronista confuso nel capannello: “Posso farle una domanda?”. Aveva curiosamente, prestato la sua voce per uno spot. Stava insomma secolarizzandosi, sembrava infilarsi il maglioncino mediatico pure lui. Ed è proprio in questo rito di passaggio che è diventato vulnerabile.

“Fuoco amico”. Proprio nel tempo in cui i due vicerè del berlusconismo si mimavano e si scambiavano i ruoli, le inchieste li hanno azzoppati entrambi, con grande soddisfazione di chi sapeva che con i monarchi designati per via ereditaria non si può competere. Il berlusconismo poteva produrre una successione legittimista tra le colombe bipartisan, o un cesarista fra i falchi belligeranti.

Quello che colpisce di più Letta, per ora, non ha rilievo penale, ma un devastante portato simbolico. È il suo principato il terreno in cui viene messo in crisi il mito. È l’Abruzzo. È il sogno della ricostruzione angelica, officiata dal sacerdote conterraneo Bruno Vespa. È per difendere l’inviolabilità di quel feudo che Letta aveva commesso una delle sue rare imprudenze: “Nessuno di quegli imprenditori ha messo piede a L’Aquila”, aveva assicurato riferendosi agli sciacalli ridens del mattone. Falso. Ora si scopre che non hanno fatto in tempo a mettere mano, ma che le commesse c’erano.

“Sono turbato” scrive Letta, ma non basta. Ora Berlusconi dice: “È ideale per il Quirinale”, perché deve tenerlo stretto a sé, anche se ferito, proprio come Bertolaso per non mettere a rischio il suo potere. E così finisce per essere un bacio della morte. Stanotte, alle 3.32, qualcuno riderà anche nelle stanze del berlusconismo.

1 commento:

Bob Bulgarelli ha detto...

Io lo spero con tutto il cuore, ma devo vederlo con i miei occhi: quando e se la cricca di governo si sfalderà, faremo insieme salti di gioia! Non prima.