GIAN GIACOMO MIGONE
Dicono i Francesi: «La verità esce dalla bocca dei bambini». Con candore davvero infantile, Maurizio Gasparri chiarisce in maniera inequivocabile lo scopo dei rigorismi applicativi della legge di par condicio e del grottesco balletto intorno alla commemorazione di Vittorio Bachelet. Dopo la riammissione della testimonianza del figlio Giovanni, il presidente del gruppo Pdl al Senato così commenta: «La par condicio così viene violata. E questo la dovrebbe mandare in soffitta, senza rimpianti».
Ora tutto, o quasi, è chiaro. Si osservi la successione degli eventi: Berlusconi in almeno due occasioni afferma che la legge sulla par condicio va abolita; una successione di emergenze parlamentari (processo corto, legittimo impedimento, protezione civile etc.) non lo consente in tempo per le elezioni regionali; la legge, ancora in vigore, viene applicata con un rigore che suscita indignazione soprattutto tra coloro che potrebbero essere interessati a difenderla (sempre diffidare quando, nel nostro Paese, si manifesta un eccesso di rigore formale!); questa volta, al posto di Berlusconi, il senatore Gasparri, nella veste di bambino di Andersen, dice che il Re è nudo, la legge va abolita, nella speranza che tutti concordino. Ove non vi fossero altre emergenze, il destino della par condicio sarebbe segnato.
Resta da spiegare la ragione di tanto accanimento. Ciò che disturba la maggioranza in quella legge non è la prima parte da cui trae il suo nome. Anzi, come si è appena constatato, la par condicio, ovvero il di per se ragionevole principio di offrire a tutte le forze politiche in campo pari diritto di tribuna in campagna elettorale, se interpretata con rigore creativo può servire a liquidare trasmissioni fastidiose quali «Anno zero» e «Ballarò», riconducendo tutte le informazioni nell'alveo maggiormente controllato dei telegiornali. Quanto al sacrificio temporaneo della trasmissione di Bruno Vespa, Parigi vale bene una Messa.
Il problema vero di quella legge consiste invece nel divieto, che pure contiene, degli spot a pagamento durante i sessanta giorni di campagna elettorale ufficiale. Quel divieto seriamente danneggia chi affronta la campagna elettorale con più denaro in tasca del suo avversario perché è costretto a rinunciare a spenderlo ove il suo arbitrio regnerebbe sovrano. Soprattutto danneggia chi, nel pagare gli spot, può limitarsi al semplice gesto di trasferire i soldi da una tasca all'altra perché possiede o controlla buona parte delle emittenti televisive. Più in generale disturba coloro che hanno interesse a far salire i costi della politica, rendendola sempre più prigioniera di chi ha tanti soldi e vuole comprarla in cambio dei favori che essa può offrire all'interno delle istituzioni. Insomma, quel divieto potrebbe giovare alla democrazia. Il senatore Gasparri ha capito perfettamente e non resiste alla tentazione di affermarlo (in fondo il bambino di Andersen non era che un primo della classe). Siamo sicuri che lo abbiano capito i suoi naturali oppositori?
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