Il magistrato spagnolo e l’offensiva globale contro i magistrati
di Paolo Flores D’Arcais
Il vero e proprio ostracismo con cui la parte antidemocratica della Spagna vuole colpire il giudice Baltasar Garzón non è una questione interna spagnola, riguarda l’intera Europa e il suo futuro: se la prospettiva del vecchio continente sarà ancora di democrazia liberale, o se sulle macerie di una divisione dei poteri ormai invisa agli establishment si affermeranno sempre di più le tentazioni di un modello neo-totalitario, alla Putin, alla Berlusconi. In gioco, nel “caso Garzón”, è infatti l’autonomia della magistratura. Senza l’intransigente custodia di questa autonomia, e senza un sistema informativo davvero pluralista e imparziale (la cui stella polare deve essere il rispetto delle “modeste verità di fatto”, in cui Hannah Arendt vedeva l’antidoto alle tentazioni totalitarie di ogni potere) la democrazia liberale è già a repentaglio, minata nella sua essenza. Ma i nemici di Garzón (che in questo caso coincidono con i nemici della democrazia liberale) si difendono sostenendo di essere loro i più autentici difensori dell’autonomia del potere giudiziario, visto che è un’istanza giudiziaria, il Tribunale Supremo (anzi, la massima istanza giudiziaria, come indica il nome) a dover giudicare Garzón e la sua “prevaricazione”. A osservare le cose sine ira et studio, però, e soprattutto a usare la logica in modo rigoroso (il che nelle attività giuridiche non può essere un optional), non è difficile vedere il rovesciamento orwelliano che l’espressione “autonomia della magistratura” viene a subire. Valga il vero.
Magistrato della Audiencia National, Baltasar Garzón rappresenta – per tenersi al linguaggio internazionale comprensibile anche ai non tecnici – l’accusa. Ritiene che un fatto avvenuto rientri in una fattispecie delittuosa prevista da una legge (tecnicamente: assume una notitia criminis), svolge delle indagini ed eventualmente procede alla incriminazione di coloro che ritiene i colpevoli. Il giudice dell’accusa può ovviamente “sbagliare”. In due modi: sia perché può considerare colpevole una persona innocente (per la quale le prove non siano sufficienti, “al di là di ogni ragionevole dubbio”), sia perché può considerare fatto delittuoso un comportamento che invece non è previsto come tale dalla legge (e dunque l’imputato sarà assolto “perché il fatto non costituisce reato”). Che il giudice dell’accusa si sia “sbagliato” o meno lo decide il giudice giudicante (in genere una corte di più membri, in numero dispari). I vari ordinamenti democratico-liberali prevedono però tutti (benché con modalità diverse da paese a paese) la possibilità di un “appello”, cioè di uno (o addirittura due) successivi gradi di giudizio, che possono ribaltare la prima sentenza, e dunque dichiarare sbagliato ciò che era stato giudicato giusto, e giusto ciò che era stato giudicato sbagliato.
Solo la sentenza definitiva e inappellabile è, in senso giuridico, quella “giusta”. Benché, come sappiamo, non poche sentenze definitive siano nella sostanza sbagliate (vengono condannati degli innocenti, anche a morte, vengono assolti dei colpevoli, anche di efferati delitti). Ma questo è il meglio che si è riusciti fin qui a escogitare per approssimare l’ideale della giustizia. Cose note e stranote, cose assolutamente ovvie, che non bisognerebbe neppure dover richiamare. Si faccia attenzione però a una conseguenza: in tutte le fasi di questo procedimento “a più strati” ciascun magistrato potrà risultare aver “sbagliato” rispetto alla decisione del magistrato successivo (e ovviamente rispetto alla giustizia in senso ideale e sostanziale). Ora, l’unica sanzione per tale “sbaglio” può essere solo una sentenza che smentisce le conclusioni del magistrato in questione. Se tali conclusioni potessero invece diventare a loro volta motivo per una incriminazione del magistrato (se una indagine, o una sentenza, potesse diventare reato di prevaricazione) l’autonomia della magistratura verrebbe distrutta e inghiottita in una guerra fra magistrati in cui ciascuno sarebbe, rispetto al suo collega, nella situazione hobbesiano di homo homini lupus. Quale magistrato potrebbe formulare più una incriminazione, visto che in caso di assoluzione dell’imputato potrebbe essere accusato di “prevaricazione”? E quale giudice di tribunale potrebbe condannare, visto che il grado superiore potrebbe poi assolvere (e imputare i giudici di “prevaricazione”)? Ma non potrebbe neppure assolvere tranquillamente, perché se il grado superiore poi condannasse l’imputato, chi lo ha assolto in primo grado potrebbe essere accusato di “prevaricazione” (verso le vittime del primo reato, ad esempio).
È questo il vero sabba di anomia a cui può arrivare, se portato alle sue estreme (cioè logiche) conseguenze, la pretesa di accusare di “prevaricazione” un magistrato solo perché interpreta una legge differentemente dal suo collega. Ma in realtà nel caso di Baltasar Garzon la questione è ancora più grave, perché non vi è stato ancora il giudizio di una corte sulla colpevolezza o meno degli eventuali “criminali” dell’epoca di Francisco Franco, su cui Garzon sta indagando.
Quello che si vuole giudicare come un “reato” è addirittura l’apertura dell’indagine e i suoi primi adempimenti (riesumazione delle salme, eccetera). In questo modo diventa legge suprema la seguente aberrazione giuridica: qualsiasi magistrato di qualsiasi ordine e grado, se ipotizza reati, apre indagini, rinvia a giudizio, e a maggior ragione formula una sentenza, in contrasto con le opinioni della maggioranza del Tribunal Supremo, può essere accusato di “prevaricazione”. Il che significa che l’unica magistratura “autonoma” in Spagna è il “Supremo” stesso, e tutti gli altri magistrati o si fanno cloni del “Supremo” o possono essere cacciati.
Una vera logica della epurazione, che rende il “Supremo” non già una corte di cassazione che può rovesciare i verdetti degli altri magistrati, ma che può inquisirli a piacere, impedendo che i processi si svolgano, o addirittura inizino. Tralascio la circostanza che nel Tribunal Supremo siano presenti ancora massicciamente magistrati di evidenti simpatia franchiste (il che la neonata democrazia spagnola avrebbe dovuto impedire, con un’epurazione almeno analoga a quella operata in Germania dopo la fine del nazismo), e che la volontà di mettere al bando Garzon segua con singolare tempismo le sue indagini su i due casi più “indigeribili” per la destra spagnola (sempre più tentata dalle sirene estremiste), quella sui crimini franchisti e sulla grande corruzione del caso Gürtel a Valencia.
Mi sono voluto limitare solo agli aspetti di “logica giuridica” che l’eventuale defenestrazione di Garzon dalla magistratura implica. E che suonano l’allarme per l’autonomia della magistratura in tutta Europa, visto che tale autonomia sempre più di frequente è sotto attacco.
Lo dico da un paese dove il “tiro a segno” del regime di Berlusconi e dell’establishment, contro i magistrati che combattono la corruzione e la mafia (e gli intrecci affaristico-politici che ne conseguono) è da anni sistematica e sempre più violenta, senza che le istituzioni europee avvertano la gravità del pericolo.
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