lunedì 8 febbraio 2010

Il processo di Erode


di Gian Carlo Caselli

Per chi può e conta, “scudi” a blindare privilegi. Per i cittadini comuni, che secondo certe logiche contano poco o nulla, soltanto proclami o messaggi ingannevoli.

Lo scudo fiscale è un regalo agli evasori e uno schiaffo agli onesti.

Lo scudo legale (previsto in esclusiva per una ristrettissima elite di politici, mentre tutti gli altri di fronte al giudice eccome se ci devono andare...) consente a chi da sempre cerca di difendersi “dai processi” di coronare finalmente il suo sogno con un “legittimo impedimento”, che potrà essere invocato praticamente per ogni attività, compresa – temo – la partita di calcio infrasettimanale della nazionale italiana o della squadra del cuore.

E non basta.

Il “legittimo impedimento” potrebbe essere l'antipasto del cosiddetto “processo breve”, la cui filosofia spicciola ricalca la tecnica di Erode: fare una strage di processi innocenti – quelli dei comuni mortali – per eliminarne un paio che interessano in altissimo loco. E dopo il “legittimo impedimento” si prepara l'ennesimo lodo (Alfano o vattelapesca), concepito questa volta addirittura come scudo costituzionale e perciò a blindatura suprema; una specie di castello medievale issato su una rocca, a guardare dall’alto la plebaglia che sfanga in pianura.

Uno scudo dopo l’altro e alla fine si consolidano le disuguaglianze, si infittiscono i privilegi, lo Stato di diritto si riduce ad un optional.

Quando il Senato voterà la riforma della disciplina delle intercettazioni, già approvata dalla Camera, anche queste funzioneranno da scudo: a protezione dei vizi (pubblici o privati) di pochi potenti, sul cui altare sarà sacrificata – senza rimorsi – la sicurezza dei cittadini comuni, che proprio nelle intercettazioni trova oggi il suo baluardo.

L'arrosto dunque, è riservato a pochissimi. A tutti gli altri niente. Al massimo un po’ di fumo, vale a dire messaggi sostanzialmente ingannevoli. Come quello che propaganda il già citato “processo breve”. Per accorciare i tempi vergognosamente lunghi della giustizia italiana, non basta fissare un termine perentorio, pena la morte dei processi. Bisogna mettere in campo tutti i mezzi necessari (a cominciare dai cancellieri, specie ormai a rischio estinzione) per poter arrivare al traguardo nel tempo stabilito. Se invece si costringe il “corridore” (cioè il magistrato) a indossare non scarpette leggere da corsa, ma pinne da nuotatore, il traguardo resta un miraggio. Messaggio ingannevole è anche quello che accompagna i progetti di riforma che giacciono (e speriamo restino ) nel cantiere ministeriale. Perché, al di là dei proclami, tutti (dalla minirifoma della procedura penale alla cancellazione della dipendenza della polizia giudiziaria dal pm, dalla separazione delle carriere alla modifica della composizione del Csm) sono progetti che non accorceranno neppure di un nanosecondo la durata dei processi, ma influiranno pesantemente – mortificandola – sull’indipendenza della magistratura, finendo per sottoporre il pm (per vari profili) al controllo del potere esecutivo. Intanto non conosce pause la martellante campagna di diffamazione dei magistrati italiani, presentati come una masnada (pardon, casta) di fannulloni inefficienti e superpagati, senza alcun rispetto per una realtà tutt’affatto diversa, anche comparata ad altri paesi europei, come prova il rapporto Cepej, la Commissione europea per l'efficienza della Giustizia, del 2008.

Infine, va segnalato che la fregola dei proclami gioca anche brutti scherzi, come sembra essere accaduto con alcune norme antimafia del “pacchetto sicurezza”, presentate come un poderoso colpo di reni contro le cosche e rivela-tesi, invece, un boomerang. Su queste norme antimafia la Cassazione ha fondato una recente sentenza che, trasferendo la competenza dal Tribunale alla Corte d’Assise, di fatto azzera molti, delicatissimi processi proprio di mafia. Un disastro. Per fortuna il ministro Alfano ha promesso di intervenire. In futuro, però, sarebbe cosa buona e giusta verificare gli effetti concreti delle norme cosiddette antimafia, prima di celebrarle come un fiore all'occhiello della politica governativa.

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