Da tradizione della sinistra italiana a spazio astratto, occupato dalle idee.
L’agorà si sposta a teatro, seguendo il filo di un narratore lungimirante:Tabucchi
di Furio Colombo
Sono anni che la discussione divampa: “Con la piazza, senza la piazza”. In Italia la drammatica alternativa è decidere se l’opposizione politica sia un’attività specialistica, di cui si incaricano professionisti iscritti all’albo (ovvero funzionari leader, meglio se consacrati dalle elezioni del popolo) o se sia aperta – o anzi fortemente segnata – da persone che, munite di tutti i diritti civili e a difesa delle proprie vite, si radunano nelle piazze per proclamare che esistono e per dire no, forte e assieme a ciò che ritengono pericoloso. A seconda dell’orientamento, si parlerà di società civile che vuole essere ascoltata o di “piazza che urla” e che non solo non serve, ma “danneggia la causa”, la “piazza sterile” dell’ultima, angosciosa dichiarazione di Di Pietro.
Qualcuno ricorderà (questo – vedrete tra poco – è tutto un gioco della memoria) il giorno (2 febbraio 2002) e l’ora (verso sera), quando Nanni Moretti è salito su un palco di una manifestazione e, indicando i leader di partito alle sue spalle, ha colto tutti di sorpresa, pronunciando la frase “con questi non vinceremo mai”.
È stata l’ultima volta nella storia italiana in cui piazza e partito politico si sono fatti vedere insieme.
Prima era stata una lunga, ininterrotta tradizione nella sinistra italiana.
Il partito, che poi si è trasformato, morto, risorto, reincarnato con gli stessi leader, con altri leader, non ha mai perdonato. Ciò che si annuncia in pubblico viene scalpellato in luoghi competenti e sicuri, mai affidato ad impeto ed emozione. Ora, di colpo, tace anche la piazza parallela, quella che Di Pietro aveva allestito accanto alle piazze chiuse del Pd. In quelle piazze a volte si gridava, a volte un milione di cittadini e alcuni politici si impegnavano a far passare messaggi non dal Palazzo alla folla, ma dalla folla al Palazzo.
Improvvisamente, l’altro giorno, Di Pietro, come Moretti, ha lasciato tutti senza fiato con un intervento altrettanto azzardato, di segno opposto: “Basta piazza che urla; le proteste di piazza sono sterili”. Lasciate fare a noi, specialisti di Palazzo. Questa è la svolta. Lasciateci lavorare – noi che sappiamo – all’alternativa.
La storia, così come l’ho raccontata, non è completa. E non comincia con Moretti, per quanto memorabile resti l’episodio di Piazza Navona. In mezzo alla storia italiana e al groviglio piazza-opposizione c’è Antonio Tabucchi. Siamo nel 1975, nel meno propizio dei mondi, un’Italia che da una parte precipita nel vuoto, dall’altra è chiusa tutta insieme nel fortino detto “della solidarietà nazionale”. Tabucchi pubblica, nel momento sbagliato e con incomprensibile successo (10 edizioni) “Piazza d’Italia”, una straordinaria intuizione sul “dentro” e il “fuori” della vita detta “politica”. E dimostra che tutto ciò che conta e lascia il segno e cambia il percorso della storia avviene “fuori”.
Ma i cauti e astuti manovratori del dentro sanno sempre come prendere possesso di ciò che non hanno fatto anche con qualche fucilata; che, comunque, risponde – più che alla ribellione – al senso di eroismo e di sacrificio dei senza potere. E, con mano pesante, lo appaga.
Azzardo d’altri tempi? Qualcuno ci riprova ai giorni nostri, ai tempi di Berlusconi, a Roma, in questi giorni, a teatro. I teatranti sono più astuti dei politici, si impossessano della piazza, la portano in scena e fanno in modo che il senso della storia, messo in moto con allegria, passione, tristezza, slancio, resistenza, coraggio, paura di tante vite separate avvenga in piazza e si veda. Ecco Tabucchi con “Piazza d’Italia”, a teatro.
“La piazza delle sterili proteste”, strana, incomprensibile frase di Di Pietro, pronunciata tra lo stupore di tanti il giorno 6 febbraio al congresso di Italia dei Valori, è raccontata lo stesso giorno, alla stessa ora, al Teatro India di Roma da un gruppo di attori decisi a tutto, come i personaggi che interpretano, a volte come folla, a volte come famiglie, a volte come aggregazione di fatica, a volte in solitudine, a decidere se vivere o morire.
Sono diretti da un regista coraggioso, Marco Baliani. Ma soprattutto dotati dello straordinario carico di parole di Antonio Tabucchi. Viene da lontano la memoria di Tabucchi. Ti porta lontano. Urla, a volte. Come tutte le voci dei senza potere non può essere sterile. Con quel treno e quel suono di parole cambia la storia.
Cambia la vita. La memoria vendica i peccati della politica vanitosa a cui è più giusto applicare la definizione “sterile”. Questa, ti dice Tabucchi, ti dice il suo testo, che è come un lungo poema collettivo, ti dicono i suoi attori che muoiono e rinascono come nei giochi dei bambini, ti dice il suo regista che tiene ben teso il racconto di tutti, questa – la piazza – è la storia bella e triste di un paese che non è vile, che non ha voglia di arrendersi.
È storia d’Italia prima della frantumazione.
1 commento:
UN ALTRO GRANDE INTELLETTUALE DELUSO! SONO STRANI, PERO'!
Posta un commento