I periti della commissione parlamentare confermano le botte.
La morte fu conseguenza di un blocco renale
di Silvia D’Onghia
Stefano Cucchi fu picchiato nelle ore precedenti all’udienza in Tribunale, il 16 ottobre scorso, ma quelle botte non ne avrebbero determinato la morte, giunta invece, alle 3 del 22 ottobre, come conseguenza di una “sindrome iperosmolare di natura prerenale”, ovvero un blocco renale.
Ieri la commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale ha votato all’unanimità la relazione finale sul decesso del 32enne romano, morto sei giorni dopo il suo arresto per droga, nel reparto detentivo dell’Ospedale Sandro Pertini. Una relazione, in realtà, più scarna ed edulcorata rispetto a quella presentata in audizione dai consulenti nominati dalla stessa commissione, il medico legale Vincenzo Pascali e lo specialista in anestesia e rianimazione Rodolfo Proietti.
Il Fatto è entrato in possesso di questa seconda, lunga e articolata relazione, utile a sciogliere alcuni nodi fondamentali di una vicenda che non ha ancora colpevoli.
LE LESIONI ORBITALI. La perizia di Pascali e Proietti, parallela a quella disposta dalla Procura di Roma, ripercorre le tappe del calvario di Stefano Cucchi, dal momento del suo arresto per venti grammi di hashish alla morte, passando per la prima visita medica, presso l’ambulatorio della Città giudiziaria. E’ qui che il dottor Ferri notò le lesioni alle palpebre inferiori, che non furono – secondo i periti – conseguenza di un “soffuso ematoma fronto-temporale sinistro” (che avrebbe provocato uno “scorrimento” dall’alto verso il basso), ma, essendo tra l’altro simmetriche su entrambi gli occhi, potrebbero essere state “prodotte da una succussione diretta delle due orbite”. “Le lesioni – aggiungono i medici – non sono particolarmente compatibili con l’ipotesi di un evento accidentale, ma suggeriscono invece, piuttosto insistentemente, l’ipotesi di alcune lesioni inferte”. Dicono di più: “Il quadro colto dal dottor Ferri era un quadro incipiente, cioè quello di una lesività probabilmente appena inferta”. Nelle ore precedenti l’udienza di convalida del fermo, Stefano fu preso in consegna dagli agenti di polizia penitenziaria, nelle aule di sicurezza della Città giudiziaria. L’arresto era invece avvenuto per mano dei carabinieri, che lo avevano tenuto per l’intera notte all’interno di due camere di sicurezza di due caserme.
LE FRATTURE. Il ragazzo presentava anche due fratture, la terza vertebra lombare e la quarta sacrale. Sulla prima, in particolare, i pareri sono stati discordi. I consulenti della commissione parlamentare sono invece molto chiari, anche grazie alla Tac eseguita: Stefano aveva una patologia spontanea “classificata come ernia di Schmorl, più o meno nella regione corrispondente al quadro della frattura”, ma vi era “una linea di frattura [...] nella regione anterolaterale. Che vi fosse in quella sede un focolaio traumatico è confermato non solo nell’atteggiamento antalgico chiaramente evidente nei fotogrammi della Tac, ma anche dall’osservazione [...] di una infiltrazione ecchimotica della muscolatura paravertebrale importante”. Cioè, sangue. “Stefano Cucchi ha subito un trauma”. Tutto ciò, secondo i periti, non ne avrebbe comunque determinato la morte; anzi, il quadro “era suscettibile di completo recupero probabilmente nel breve volgere di 15-20 giorni e anche senza importanti conseguenze”. Quando Stefano entrò al Pertini, non era in pericolo di vita. E allora cosa accadde? Pascali e Proietti non lasciano molti dubbi.
RIFIUTO DI CIBO E CURE.
“Il fatto nuovo che impresse una svolta si verificò alcune ore dopo il suo ricovero poiché, a causa forse, oppure per sottolineare la propria esigenza di vedere l’avvocato di fiducia, il paziente cominciò a manifestare opposizione alla somministrazione di cure e di cibo”. Non sempre e non tutto. Cucchi rifiutò le terapie endovenose, “accettò invece, a più riprese, iniezioni intramuscolari di antidolorifici, farmaci, sedativi ipnotici”, a dimostrazione del dolore che provava. Non si alimentò e non bevve regolarmente, lo fece “in maniera inadeguata e saltuaria”. E cominciò a “dimagrire drasticamente”. “Ancora più allarmante (rispetto al dimagrimento di dieci chili, ndr) – scrivono i periti – fu la sindrome dismetabolica e di squilibrio idroelettrolitico”. In mancanza di acqua, i reni cominciano a non funzionare e si bloccano. Si chiama “sindrome iperosmolare di natura prerenale” e presenta due stadi: “Il primo potrebbe essere definito reversibile, perché il danno non si è ancora prodotto”. Poi c’è “il punto di non ritorno”, nel corso del quale non è più sufficiente assumere acqua, ma sono necessarie terapie endovenose. Due anche i rischi che si corrono: “Il coma e un’insufficienza respiratoria che porta alla morte [...] e un arresto cardiaco autonomo”.
LE COLPE MEDICHE. Qui entrano in gioco le colpe dei medici, che secondo i consulenti si resero conto del blocco dei reni, ma non individuarono “l’urgenza e la gravità del problema la sera del 21 (la sera prima della morte, ndr). Se i medici si fossero accorti di questo [...] il paziente sarebbe stato certamente controllato a vista quella notte”. Invece l’ultima visita fu alle 22, Stefano a mezzanotte chiese a un infermiere una cioccolata, alle 3 – presumibilmente – il suo cuore smise di battere. Soltanto tre ore dopo, la dottoressa Bruno tentò di rianimarlo, nonostante avesse notato il rigor mortis. “Il paziente fu rianimato per precauzione e non perché ancora vivo”, scrivono Pascali e Proietti. I medici non capirono la gravità della situazione e non avvertirono il paziente dei rischi che stava correndo. Stefano non beveva perché voleva parlare con il suo legale, pensava che la condizione fosse reversibile: forse, se qualcuno gli avesse detto che rischiava la vita, questa relazione non sarebbe mai stata fatta.
1 commento:
IL SISTEMA E' IMPAZZITO: E' ANGOSCIANTE.
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