LA PRESIDENTE DELLA COMMISSIONE GIUSTIZIA, “TALLONE” PER LE SUE POSIZIONI POLITICHE
di Eduardo Di Blasi
Quando Claudio Sabelli Fioretti la provocò sulla composizione dell’eventuale governo di una Terza Repubblica, Giulia Bongiorno, che all’epoca era solo l’avvocato che, non ancora trentenne, aveva “salvato” Giulio Andreotti da una condanna per mafia, stette al gioco e rispose: Emma Bonino primo ministro. Barbara Contini agli Esteri. Letizia Moratti all’Economia. Maria Rita Lorenzetti agli Interni. Stefania Prestigiacomo alla Cultura. La Giustizia la affidò a un’altra siciliana, Anna Finocchiaro.
Sono passati appena cinque anni da allora, ma quella previsione sembra arrivata da un altro secolo: il primo ministro è Silvio Berlusconi, alla Giustizia c’è ufficialmente Angelino Alfano con la consulenza dell’avvocato Niccolò Ghedini, e Giulia Bongiorno, presidente della Commissione Giustizia a Montecitorio, è nell’ultima trincea finiana, quella da cui il premier Silvio Berlusconi deve far passare le leggi che servono a salvare sé stesso dai propri processi.
Entrò alla Camera nel 2006, Giulia Bongiorno, nelle fila di An, preceduta dalla meritata fama mediatica (che poi sarebbe cresciuta con le difese di personaggi come Totti, Bettarini, Raffaele Sollecito) e da un solido legame con Gianfranco Fini, per cui curò l’anno seguente anche le pratiche per il divorzio dalla moglie Daniela.
Non si può certo ricondurre a una coincidenza, ma quando nell’aprile 2008, tornato al governo il Pdl, Fini provò a ricavare per lei il ruolo di Guardasigilli si trovò contro non solo l’intransigente opposizione della truppa berlusconiana, ma anche quella degli ex colonnelli di An: “Non è matura politicamente – si disse - potrebbe sollevare tecnicismi e andare in urto con Berlusconi in un settore troppo delicato”. E in urto con Berlusconi, la Bongiorno, ci finì praticamente da subito. Da poco dopo il discorso di insediamento che aveva addirittura apprezzato pubblicamente con una frase che oggi, dopo che il premier ha lanciato strali dai giudici del Tar del Lazio ai togati della Consulta, farebbe sorridere: “Visto che tutti pensano che Berlusconi attacchi indiscriminatamente le toghe è stato bene che il premier abbia precisato il suo pensiero esprimendo, nei confronti della magistratura, fiducia, credito e riconoscimento dei meriti”. D’altronde il lavoro in commissione Giustizia è diventato in breve frenetico.
Si iniziò con le intercettazioni (e la platea dei reati per i quali si postulava potessero rimanere, a partire da quelle sulla corruzione nella pubblica amministrazione) e i primi incontri a tre: ministro della Giustizia, presidente della Commissione a Montecitorio e avvocato del premier. La prima increspatura si ebbe sulla norma salva-manager, inserita di soppiatto nel decreto Alitalia. Quella volta, assieme a lei, si schierarono in pubblico anche Tremonti e Sacconi. Seguirono le dure prese di posizione a tutela della Consulta rea di aver bocciato il Lodo Alfano, sul quale i finiani avevano provato un lavoro di lima sino al possibile.
Non fu l’ultimo punto di crisi. A settembre fu la Bongiorno a querelare, per conto del presidente della Camera, il neo-direttore de Il Giornale Vittorio Feltri, che aveva adombrato uno scandalo sessuale tra gli alti vertici di An, nel 2000.
Si proseguì, in aula, con la grande battaglia sulla prescrizione breve, vera pietra dello scandalo per gli uni e per gli altri, come testimoniano le parole di Fini alla direzione Pdl di giovedì. Così come era concepita avrebbe cancellato 600 mila processi in corso, solo per cancellare quello che interessava il premier. Una follia giuridica. Una battaglia combattuta e vinta dall’avvocato palermitano formatasi al liceo dell’Opus Dei. Una battaglia prima della guerra totale tra i cofondatori.
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