domenica 4 aprile 2010

Lega Nord, come al saloon


di Furio Colombo

Qualcuno ha visto il deputato leghista Matteo Salvini sullo schermo del Tg3, Linea Notte, la sera del 30 marzo? Persino il ministro Ronchi ha taciuto, dopo aver tentato di dire: “Bossi sindaco di Milano? Non se ne parla”. Matteo Salvini, al momento che sto descrivendo, non era in studio a Roma con il ministro del suo governo (ma sarebbe meglio dire che Ronchi è il ministro del governo Bossi). Era collegato da Milano. Ma bastava l’immagine a definirlo: camicia aperta, cravattone verde slargato, l’aria spavalda con cui si tiene a bada il saloon. E infatti è stato pronto a dire all’esile Ronchi: “Io sono grande e grosso e per me non ho paura. Ma vi assicuro che uscire da questo studio e andare là fuori non è così facile a quest’ora. Siamo noi che andiamo in giro per queste strade e tocca a noi la responsabilità di dare sicurezza ai cittadini. Provateci voi e poi discuteremo chi farà il sindaco qui”. Insomma, un messaggio dai peggiori bar di Caracas.

Ronchi, benché al sicuro nello studio di Roma, benché informato del fatto che Salvini – come capo del partito Lega Nord a Milano – non si aggira da solo, di notte, in bicicletta senza ronde nella pericolosa città padana, ha preferito tacere.

La frase di Salvini implicava che ometti come Ronchi e La Russa (altro ex An, che aveva osato dire no al Capo) non possono neppure accostarsi al gigante Bossi. E diceva chiaramente che Milano è una specie di Cecenia in cui – come ti avventuri di notte fra le strade – corri il rischio di cadere sotto la barbarie feroce degli immigrati. La dimostrazione – lui avrebbe detto – sono i disordini di via Padova. Ma via Padova è lontanissima da Corso Sempione (sede Rai di Milano, da cui il buon Salvini spadroneggiava) e non occorre un esperto per dire che la triste e furiosa rissa di via Padova fra immigrati è stata uno scontro di disperati forzati a vivere, a costi pazzeschi e in condizioni disumane, nello stesso quartiere ghetto, senza legge e senza tutele. Luoghi in cui per forza scoppia la violenza. Come a Londra, come a Los Angeles, trenta o quaranta anni fa. Ecco invece una storia di oggi, nella Milano dove il presidente Formigoni ha vinto per finta e governa a nome della Lega (anche perché un certo numero di suoi assessori hanno da fare in varie sezioni, civili e penali, dei tribunali) e dove la Moratti si presta a essere portata in processione dalla Lega (per ora, per poco) e a essere il sindaco “facente funzione” fino a quando arriverà Bossi. Troverete tutto, sulla civiltà della Lega Nord e dei suoi complici, a Milano, ai giorni nostri, nella e mail che ho ricevuto per conoscenza da alcune maestre di Segrate (Milano). Una lettera che quelle maestre hanno scritto ai loro bambini rom.

“Ciao Marius, ciao Cristina, Ana, ciao a voi tutti bambini del campo di Segrate. Voi non leggerete il nostro saluto sul giornale, perché i vostri genitori non sanno leggere e il giornale non lo comperano. È proprio per questo che vi hanno iscritti a scuola e hanno continuato a mandarvi, nonostante la loro vita sia difficilissima, perché sognano di vedervi integrati in questa società, perché sognano un futuro in cui voi siate rispettati e possiate veder riconosciute le vostre capacità e la vostra dignità. Vi fanno studiare, perché sognano che almeno voi possiate avere un lavoro, una casa e la fiducia degli altri.

Sappiamo quanto siano stati difficili per voi questi mesi: il freddo, tantissimo, gli sgomberi continui che vi hanno costretti ogni volta a prendere tutto e a dormire all’aperto in attesa che i vostri papà ricostruissero una baracchina, sapendo che le ruspe di lì a poco l’avrebbero di nuovo distrutta insieme a tutto ciò che avete. Le vostre cartelle le abbiamo volute tenere a scuola, perché sappiate che vi aspettiamo sempre, e anche perché non volevamo che le ruspe che radono al suolo le vostre casette facessero scempio del vostro lavoro, pieno di entusiasmo e di fatica. Saremo a scuola ad aspettarvi, verremo a prendervi se non potrete venire, non vi lasceremo soli, né voi né i vostri genitori, che abbiamo imparato a stimare e ad apprezzare. Grazie per essere nostri scolari, per averci insegnato quanta tenacia possa esserci nel voler studiare, grazie ai vostri genitori, che vi hanno sempre messi al primo posto e che si sono fidati di noi. I vostri compagni ci chiederanno di voi. Che spiegazioni potremo dare? E quali potremo dare a voi, che condividete con le vostre classi le regole, l’affetto, la giustizia, la solidarietà: come vi spiegheremo gli sgomberi? Non sappiamo cosa vi spiegheremo, ma di sicuro continueremo ad insegnarvi tante, tante cose, più cose che possiamo, perché domani voi siate in grado di difendervi dall’ingiustizia, perché i vostri figli siano trattati come bambini, non come bambini rom, colpevoli prima ancora di essere nati. Vi insegneremo mille parole, centomila parole, perché nessuno possa più cercare di annientare chi come voi non ha voce. Ora la vostra voce siamo noi, insieme a tantissimi altri maestri, genitori dei vostri compagni, insieme ai volontari che sono con voi da anni e a tanti amici ed abitanti della zona. A presto, bambini, a scuola”.

Le vostre maestre: Irene Gasparini, Flaviana Robbiati, Stefania Faggi, Ornella Salina, Maria Sciorio, Monica Faccioli.

Le maestre di Segrate non hanno vinto le elezioni. Non le ha vinte neanche il ministro Ronchi, che guardava con il timore di un normale essere umano il trionfalismo prepotente di Salvini, bossiano della prima ora, pronto – con il Capo e con Renzo, il giovane e promettente figlio del Capo, immagine tipica della nuova cultura leghista – a battersi per l’apartheid. E non ha vinto, non a Milano, il PD, anche perché il suo candidato Penati ha purtroppo sostenuto in pubblico che “non c’è niente di male a organizzare le ronde, basta chiamarle presìdi”, lasciando subito in libertà un mare di voti. Tutti i voti di un solidarismo italiano oggi guardato con disprezzo, spinto a disperdersi o nascondersi, ma che aveva fatto grandi e rispettabili molti luoghi e momenti della vita italiana. Per capire dove siamo arrivati, pensate all’avvento storico del primo governatore leghista del Piemonte, Roberto Cota, ai pensieri e progetti che ha subito sentito il bisogno di condividere con i cittadini.

Prima frase: “La pillola abortiva RU 486 marcirà nei magazzini. Per quanto è in mio potere, quelle pillole non verranno mai distribuite”. Su questa frase ha scritto Chiara Saraceno (“La Repubblica”, 1 aprile 2010) “alle donne piemontesi viene imposto il dolore per legge”. E il medico ginecologo Guido Viale, esponente radicale e candidato a Torino, che per primo ha introdotto la RU 486 in Italia, ha notato “Strano che Cota si sia guardato bene dal fare il minimo cenno di questo colpo contro le donne in campagna elettorale”. Il Vaticano, in violazione del Concordato, ringrazia. Seconda frase: “Mantenere il permesso di soggiorno all’immigrato che ha perso il lavoro? Non ne vedo l’esigenza. Se l’immigrato perde il lavoro, non è più produttivo. Perché dovrebbe restare? A fare che cosa?”. La nobiltà della frase dovrebbe indurre a scolpirla in una targa di marmo sulla facciata del palazzo della Regione. Un giorno l’incubo Lega finirà. Ma è giusto che i liberi e civili cittadini che verranno dopo possano sapere che Italia è stata questa che stiamo vivendo. Terza frase: “Le tasse dei piemontesi resteranno ai piemontesi”. È l’annuncio che, tramite Berlusconi, i governi leghisti (che prima del voto hanno stretto un patto che butta all’aria il federalismo, perché unisce Piemonte, Lombardia e Veneto) hanno dato il via alla secessione.

Bisogna essere politicamente ciechi per non vedere che sta già accadendo. Stiamo per essere la ex Italia.

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