sabato 1 maggio 2010

ABBANDONATO


Chiuse le indagini sulla morte di Stefano Cucchi
Acqua e zucchero gli avrebbero salvato la vita

di Silvia D’Onghia

Acqua e zucchero a volte possono salvare la vita. Se i medici del reparto detentivo dell’ospedale romano Pertini gli avessero dato un bicchiere d’acqua con un cucchiaino di zucchero, Stefano Cucchi non sarebbe morto. Una conclusione che se non fosse tragica sarebbe paradossale quella cui sono giunti i pm Barba e Loy, che ieri hanno notificato l’avviso di chiusura indagini ai 13 indagati (quattro in più di quelli conosciuti finora) per la morte del ragazzo di 31 anni, arrestato per droga la notte del 15 ottobre 2009 e riconsegnato cadavere alla famiglia sette giorni dopo.

L’avviso di chiusura indagini solitamente prelude alla richiesta di rinvio a giudizio. È scomparsa dalle accuse quella di omicidio preterintenzionale per i tre agenti della polizia penitenziaria che lo avrebbero picchiato, accusati solo di lesioni con l’aggravante di aver commesso il fatto con l’abuso dei poteri. Così come non esiste più quella di omicidio colposo nei confronti di cinque medici e tre infermieri del Pertini, che dovranno invece rispondere, in concorso e a vario titolo, di abbandono d’incapace, rifiuto di atti d’ufficio, falsità ideologica in atti pubblici, favoreggiamento e omissione di referto. Quando ieri mattina gli atti sono stati depositati, qualcuno ha gridato allo scandalo. In realtà, queste ultime accuse sono più gravi del semplice omicidio colposo: solo l’abbandono di “incapace di provvedere a se stesso” prevede una pena da tre a otto anni se da quell’abbandono deriva la morte.

“Noi siamo molto soddisfatti di questi capi d’imputazione – ha commentato Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi – a prescindere dalla qualificazione giuridica relativa alle guardie, sulla quale siamo fiduciosi di poter influire quando ci sarà la richiesta di rinvio a giudizio”. I pubblici ministeri si sono basati sulla perizia da loro stessi commissionata all’équipe del professor Paolo Arbarello, che di fatto non considerava la morte come conseguenza delle lesioni. Secondo i magistrati, gli agenti penitenziari Antonio Domenici, Nicola Minichini e Corrado Santantonio spinsero e colpirono Stefano “con dei calci” nei sotterranei del Tribunale di Roma, lo fecero cadere a terra e gli causarono lesioni (ematomi, escoriazioni e l’infrazione della quarta vertebra sacrale. Nessun accenno, invece, alla frattura della terza vertebra lombare, che secondo la perizia della famiglia sarebbe attribuibile a quelle botte). Il tutto “per far desistere il detenuto dalle reiterate richieste di farmaci e alle continue lamentele”. “L’incolpazione è meno grave – commenta l’avvocato Diego Perugini, che difende Minichini – Se di lesioni si dovrà parlare, allora bisognerà individuare i soggetti responsabili di quelle lesioni. Vedremo se i pm avranno delle testimonianze e se quelle testimonianze saranno vere”.

Ma le accuse più pesanti riguardano i medici, Aldo Fierro, direttore del reparto, Silvia Di Carlo, Flaminia Bruno, Stefania Corbi, Luigi De Marchis Preite, e gli infermieri Giuseppe Flauto, Elvira Martelli e Domenico Pepe.

Stefano fu “abbandonato” da tutti. “Volontariamente” omisero di “intervenire” con un “elettrocardiogramma” “assolutamente necessario”, “limitandosi ad annotare nella cartella un asserito rifiuto del paziente”. Omisero di “adottare qualunque presidio terapeutico” di fronte alla bassa glicemia, “neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchier d’acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso”. Ancora, omisero di “comunicare al paziente l’assoluta necessità di effettuare esami essenziali alla tutela della sua vita”, non lo trasferirono in un reparto più idoneo (pur rendendosi conto della gravità delle sue condizioni), non controllarono il posizionamento del catetere. In più, la dottoressa Bruno annotò la “morte naturale”, “pur essendo a conoscenza delle patologie di cui era affetto”.

Ipotesi tutte respinte dagli avvocati. “Non ci sono responsabilità da parte dei medici – spiega Gerardo Russillo, che assiste la Bruno – la ricostruzione è contraddittoria e la perizia piena di errori. Per ritenere un soggetto incapace ci vogliono tanti altri elementi”.

Tra gli indagati compare anche il direttore dell’ufficio dei detenuti e del trattamento del Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria, Claudio Marchiandi, che avrebbe “istigato” il medico di turno del Pertini, Rosita Caponetti, ad accettare il ricovero di Cucchi, indicando “falsamente”, scrivono i pm, “condizioni generali ‘buone’, stato di nutrizione ‘discreto’, ‘decubito indifferente’, apparato muscolare ‘tonico trofico’, apparato urogenitale ‘n.d.r.’, dati palesemente falsi in ordine alle reali condizioni del paziente”. Quando arrivò al Pertini, Stefano era già “allettato in decubito obbligato, cateterizzato, con apparato muscolare gravemente ipotonotrofico”.

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