FABIO MARTINI
Dall’eremo del silenzio nel quale si è rinchiuso da due anni e mezzo, Romano Prodi non sorride ma annota: «Dopo tutto quello che hanno detto e fatto, era difficile immaginare che si sarebbero ritrovati a questo punto...». Il Professore non aggiunge altro, con la politica attiva ha chiuso, ma anche per lui è difficile restare insensibile al più inatteso dei «déjà-vu»: d’ora in poi il governo Berlusconi - proprio come il governo Prodi nella sua fase finale - sarà costretto ogni giorno a contrattare il voto con singoli e gruppetti. Con una differenza: all’indomani delle elezioni Romano Prodi si trovò a governare, al Senato, con una maggioranza di un solo voto, mentre il governo Berlusconi, anche grazie a un consenso elettorale più largo, si è ritrovato in dote un margine di assoluta sicurezza: 31 voti alla Camera e 18 al Senato.
Ma ora quel vantaggio si è azzerato. I «finiani» sono stati espulsi dal Pdl ma hanno costituito alla Camera un gruppo parlamentare così forte (34 deputati) da risultare determinante: senza i loro voti, il governo va «sotto». E dunque, d’ora in poi, i gruppi parlamentari del Pdl saranno costretti a trattare su ogni singolo provvedimento anzitutto con i «finiani», ma anche con i 5 deputati vicini al Governatore di Sicilia Lombardo, con l’Udc, con l’Api di Rutelli, con gli onorevoli senza fissa dimora che pullulano a Montecitorio. Col risultato che per Berlusconi si profila una paradossale sindrome Turigliatto, il senatore comunista che tre anni fa, manifestando una improvvisa dissidenza dal Prc, diventò il simbolo delle peripezie del governo Prodi.
Ricorda il professor Giampaolo D’Andrea, «sottosegretario al Senato» del governo Prodi: «Per noi, soprattutto nella fase finale, era diventato faticosissimo rincorrere gruppi e gruppetti, Turigliatto e Rossi, Bordon e Manzione, gli amici di Dini. Uno stillicidio dei singoli ma non c’era un dissidio politico organizzato: con Rifondazione era dura, ma fatto un accordo, poi la questione era chiusa. Paradossalmente per il centrodestra si profila più dura: noi dovevamo tenere la nostra risicatissima maggioranza, loro la devono allargare». In effetti la rissosa Unione, tenuta assieme dalla pazienza del premier e dalla cucitura quotidiana degli sherpa, non ebbe mai problemi alla Camera, dove vantava margini più ampi, ma dove non si manifestò mai una dissidenza politica. Al Senato invece al margine risicatissimo (seppur ampliato di volta in volta dai senatori a vita), si sommarono tanti problemi, prodotti dai singoli: la decisione di Franco Marini di non rinunciare alla poltrona di presidente del Senato, abbassando così il «monte» del centrosinistra; il forfait del senatore Sergio De Gregorio; la dissidenza sempre più organica di Franco Turigliatto, già militante della Lega Comunista Rivoluzionaria e poi eletto come senatore nelle liste del Prc; il continuo rialzare il prezzo da parte di Lamberto Dini e di singoli, colpiti da improvvise crisi di coscienza.
Quel «corpo a corpo» è replicabile? Su singoli provvedimenti, come avvenuto con la rutelliana Api sulla riforma universitaria, il governo può immaginare di ottenere appoggi ogni volta diversi? Insomma, sono praticabili maggioranze a geometria variabile? Bruno Tabacci - capofila dell’Api alla Camera, da anni uno dei pochi leader parlamentari trasversali - non lascia spazi: «Noi stiamo all’opposizione e non siamo disponibili a giochetti. Casini? Non credo che voglia fare il Mastella della situazione, con tutto il rispetto per Pier e per Clemente. In questi giorni è accaduto qualcosa di importante: la golden share della maggioranza è passata dalla Lega al gruppo di Fini e dunque quello che potrà accadere è l’esatto contrario di quel che sperano a Palazzo Chigi: gruppi come il nostro e come l’Udc tenderanno a cercare un raccordo parlamentare con Fini, ma non con un governo che sembra entrato nella sua fase conclusiva».
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