sabato 13 novembre 2010

Gattopardi al tempo di Gomorra



di Gianluca Di Feo

Pubblichiamo uno stralcio del libro-intervista all’ex pm della Dda di Napoli Raffaele Cantone

Il broker di Gomorra interpretato sullo schermo da Toni Servillo è ancora al lavoro: si presenta tutti i giorni negli uffici delle aziende con il suo catalogo di offerte molto speciali. E trova sempre nuovi clienti, nonostante adesso – dopo il libro di Saviano e il film di Garrone – tutti sappiano. (...) Nel 2005, prima che irrompesse Gomorra di Roberto Saviano e quando Napoli ancora si cullava nell’illusione del rinascimento bassoliniano, che aveva dato sicuramente una speranza senza però riuscire a risolvere problemi secolari, sembrava che l’unico problema in città fossero i delinquentelli che il sabato sera migravano dalle periferie. Invece, a pochi chilometri da Posillipo, la faida feroce di Secondigliano scaturiva da una rete di investimenti internazionali e i casalesi nel silenzio avevano cementato un impero economico. Per Raffaele Cantone, pm della Dda partenopea fino al 2007, a Napoli “la rimozione del problema” è stata opera “di parte consistente della classe dirigente, non solo politica, ma anche professionale e imprenditoriale. La borghesia ricca e colta, che vive nelle zone bene di Napoli, continua a credere che il male sia confinato a Secondigliano e nei quartieri degradati. Non di rado si limita a sostenere che ‘fare pubblicità a certi fenomeni significa amplificarli’. Non c’è spesso nemmeno l’interesse a capire. Nei dibattiti affollati di professionisti e docenti, esponenti di una borghesia che crede nel valore della cultura, capita che si discuta pochissimo di camorra, mentre c’è attenzione su temi di politica giudiziaria come le intercettazioni e la riforma della giustizia. È come se per alcuni soggetti quello che accade fuori dal loro perimetro di benessere non avesse rilevanza: se i problemi sono lontani non esistono. Pezzi della borghesia che fingono che la camorra sia altrove non hanno poi alcuna remora a fare affari con i boss nella loro attività professionale.

Quando, nell’autunno 2005 L’espresso con la copertina “Napoli addio” denunciò la fine del sogno bassoliniano e anticipò l’ondata di malaffare esplosa subito dopo con la crisi dei rifiuti e la mattanza dei killer casalesi, la reazione della città fu compatta. Dal sindaco al governatore, dai professori agli industriali, tutti rifiutarono di prendere atto di quello che stava accadendo davanti ai loro occhi, fino al gesto del cantante Gigi D’Alessio che strappò la copertina davanti alle telecamere. È lo stesso muro di disprezzo e rimozione che a Napoli unì ceti alti e popolari nel rifiutare Gomorra.

Ed è la stessa borghesia che in quegli anni ha negato il problema e che ancora oggi ritiene che il romanzo di Saviano sia stato in fondo la causa di una pubblicità negativa per la Campania. Ma tra quelle persone convinte della loro visione a dir poco ottimistica ci sono anche i commercialisti, gli avvocati e gli architetti che nelle indagini poi vengono intercettati mentre lavorano con le società dei boss o addirittura chiedono il loro intervento per risolvere problemi quotidiani.

Adesso invece c’è un fenomeno agli antipodi, che paradossalmente porta allo stesso risultato: si mette sulla scrivania Gomorra e si ostenta il libro per mostrare un impegno antimafia che non esiste.

Gomorra ha avuto l’eccezionale merito di aprire gli occhi a tanta gente e, rispetto a prima, è cambiata anche grazie a esso la consapevolezza della gravità del fenomeno criminale. Eppure in alcuni ambienti quel libro è stato utilizzato in modo furbo e tartufesco: fingere di adottare Saviano, manifestare stima pubblica nelle interviste per sbandierare una patente antimafia; singolare, al proposito, la vicenda del calciatore Marco Borriello, fra l’altro figlio di un personaggio dei quartieri poveri ammazzato per una vicenda di usura e camorra, che in modo assolutamente spontaneo dice cosa pensa su Saviano e dà voce a un sentimento molto diffuso, poi si rende conto che questa posizione non paga, che è politically incorrect e imbastisce una vergognosa retromarcia, ma si capisce che non ne è convinto. E questo è l’atteggiamento di gran parte della società napoletana, la quale, pur sotto sotto continuando a ritenere che questo romanzo sia un disastro per la Campania, formalmente lo ha adottato e in qualche modo così simula una mobilitazione anticamorra. È sintomatico che molti politici adesso per dimostrare di voler combattere la camorra, la prima cosa che dicono è “Io stimo Saviano”. Io penso che non serve a nulla stimare Saviano: in Campania c’è bisogno di fare qualcosa di concreto.

È la versione moderna del famoso ‘Facimme ammuina’ borbonico: una gran baldoria per occultare

l’assenza di concretezza.

Quello che sta accadendo con Savia-no è un meccanismo tipico della società meridionale, e di quella campana in particolare, di individuare una serie di figure a cui delegare la soluzione dei problemi: “Vabbuò tanto c’è Saviano...”, come se uno scrittore da solo potesse sconfiggere la camorra. È un paradosso che diventa l’alibi per mettersi la coscienza a posto: “Tanto c’è lui che se ne occupa”.

Questa delega, che di fatto si trasforma in una nuova rimozione della presenza criminale, è specchio dell’incapacità della borghesia campana e più in generale meridionale di guidare la riscossa della legalità: si aspetta che qualcun altro risolva i problemi. Che intanto continuano a diventare più profondi.

È uno dei freni storici allo sviluppo del Sud: l’assenza di quella borghesia illuminata che nel resto d’Italia e d’Europa ha fatto da traino allo sviluppo. Questa tradizione, che nasceva in contrasto con il latifondismo della nobiltà, nel Meridione non c’è stata: come insegna Il Gattopardo, quella borghesia è nata tentando di imitare le peggiori logiche di una aristocrazia terriera basata sulla rendita. Ancora oggi l’assenza di iniziative imprenditoriali di livello internazionale lo testimonia, ed è anche uno degli elementi che hanno concesso tanto spazio all’infiltrazione della camorra nell’economia.

Nessun commento: