MARCO BARDAZZI
L’ ultimo tentativo di sbarrargli la strada, tardivo e un po’ disperato, è stato un assalto in stile hacker al suo sito, Wikileaks.org, finito ko nel tardo pomeriggio di ieri. Ma a quel punto niente poteva più fermare Julian Assange, il trentanovenne crociato australiano della lotta ai segreti dei governi. La sua arma segreta sono state decine di «chiavette» Usb da 1,6 gigabyte, ognuna non più grande di due unghie affiancate, ma ciascuna capace di contenere 251.287 documenti che raccontano anni di scambi di informazioni tra Washington e oltre 250 ambasciate e consolati Usa nel mondo. Da settimane le aveva fatte consegnare a un ristretto gruppo di giornalisti in varie parti del mondo e ad altre mani sicure, in modo da aggirare i tentativi di censura.
Assange stesso si è «smaterializzato» nella domenica più importante della sua vita. È comparso in collegamento video da chissà dove in una conferenza di giornalisti investigativi in Giordania, facendo capire di sentirsi braccato. «Non posso essere con voi oggi, ma sono costretto ad apparire su un link video perché ho
Una qualche trattativa tra Assange e Washington è proseguita fino alla notte tra sabato e domenica, quando il Dipartimento di Stato ha deciso di rendere pubblica una lettera con la quale lanciava un avvertimento in extremis al fondatore di Wikileaks. La pubblicazione dei documenti «mette a rischio le vite di un numero imprecisato di persone innocenti», ha scritto ad Assange il consigliere legale di Hillary Clinton, Harold Hongju Koh, aggiungendo una lista di altri possibile gravi conseguenze: operazioni militari compromesse, lotta al terrorismo bloccata, rischi per la guerra ai trafficanti di armi, di uomini e di droga. Koh ha esortato Assange a fermare tutto e distruggere i documenti in suo possesso. Ma le chiavette Usb ormai erano già tutte a destinazione e i team investigativi di vari quotidiani erano al lavoro sul loro contenuto. «La nostra organizzazione ha una storia di quattro anni di pubblicazioni e per quanto ne sappiamo nessuno è mai stato in pericolo per le nostre rivelazioni», ha tuonato Assange, prima di interrompere il videocollegamento con
Poco dopo le 17 di ieri, la sua organizzazione si è fatta viva su Twitter con un messaggio di allarme: «Siamo sottoposti a un massiccio attacco “denial of service”», cioè investiti da un’ondata digitale di contatti usati per bloccare un sito su Internet. A rivendicare il gesto è stato un misterioso hacker che si fa chiamare «The Jester», già protagonista di attacchi contro siti da lui accusati di «terrorismo». Wikileaks.org è rimasto inaccessibile per molte ore, mentre la valanga di documenti cominciava a uscire sul «New York Times», il «Guardian» e le altre testate che li avevano avuti in anteprima. I giornali però hanno scelto di porre quantomeno un filtro alla pubblicazione, coprendo l’identità delle fonti utilizzate dai diplomatici americani nel mondo per ottenere le informazioni poi trasferite a Washington.
Una cautela legata ai timori dei media nel mettere apertamente sul web nomi e cognomi contenuti su documenti che fino a ieri erano chiusi dentro il circuito «Siprnet», la rete interna riservata gestita dal Pentagono, sulla quale circolano anche i cablogrammi del Dipartimento di Stato. Proprio il fatto che la falla si sia aperta nel network militare avvalora il sospetto che l’autore della più vasta fuga di notizie della storia sia sempre il soldato Bradley Manning, 22 anni, arrestato sette mesi fa per aver diffuso i segreti del ministero della Difesa Usa già finiti da tempo su Wikileaks.
I documenti circolati ieri non sono necessariamente della categoria «top secret», riservata alle agenzie di spionaggio, ma arrivano fino al livello «Secret NoForN». Un acronimo il cui significato è che nessun straniero («foreign national») sarebbe autorizzato a leggerli. Un divieto che ora evapora, mentre il mondo si immerge nei segreti diplomatici americani.
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