Un testamento artistico e politico
Pubblichiamo uno stralcio del lungo intervento di Mario Monicelli apparso sul numero di settembre di MicroMega, interamente dedicato al cinema
di Mario Monicelli
Allora erano tutti fascisti. Gli italiani appoggiavano tutti il regime, tranne quei pochi disperati che stavano in Francia o che erano stati mandati al confino a Ventotene o in un qualche altro posto. E in più questi dissidenti erano tutti di una certa età: i più giovani erano tutti “fascistissimi”, tutti convinti che avremmo vinto la guerra e saremmo diventati, al seguito della Germania, i padroni del mondo. Mio padre era stato un giornalista molto importante. Partito da posizioni socialiste era poi passato con i liberali e, come molti liberali, aveva inizialmente visto nel fascismo un argine contro il “pericolo bolscevico” e con il suo giornale – era direttore del Resto del Carlino – lo aveva sostenuto, sebbene con uno stato d’animo assai riottoso. Con il delitto Matteotti – quando il regime si presentò per quello che realmente era, rivendicando il suo volto violento, sanguinario – mio padre passò all’opposizione. Scrisse sul suo giornale tre o quattro articoli nei quali denunciò il delitto con toni molto accesi e così gli fu tolta la direzione e la proprietà (era anche il proprietario del giornale, oltre che il direttore). Gli fu anche proibito di firmare qualsiasi articolo – non solo di politica, ma di qualunque argomento – con il suo nome. (...) Invece i suoi colleghi giornalisti non ebbero alcun problema a lavorare nelle redazioni dei vari giornali fascisti. Quando poi il regime crollò, tutti a salire sulla barca della democrazia: gli stessi che fino al giorno prima avevano esaltato il fascismo. Ma mio padre, che durante il Ventennio era stato estromesso poiché antifascista, non fu affatto reintegrato nel suo vecchio lavoro. Continuò a essere un emarginato, anche perché nei posti che contavano erano rimasti quelli che c’erano durante il regime. E questo lo portò al suicidio. Fu un gesto sbagliato, niente affatto eroico, che cinematograficamente potrebbe essere raccontato all’interno di una storia piena di sarcasmo. Ma maturò proprio dentro questa cornice di comprensibile amarezza e indignazione.
OGGI IL CINEMA italiano del secondo dopoguerra è identificato con il neorealismo. Ma quello era un cinema di élite: tutti si inchinavano, la stampa ne celebrava gli autori, la critica ne incensava i registi. Ma il pubblico mica li andava a vedere i film neorealisti! Andava a vedere i film di Totò o Come persi la guerra. Per questo non facevo il “neorealismo”, ma questa sorta di... “neofarsismo”. Facevamo un cinema molto autentico che trattava temi importanti – il problema della casa, del lavoro, della sopravvivenza quotidiana – ma in chiave niente affatto drammatica, con attori come Totò o Aldo Fabrizi che venivano dal teatro leggero ed erano popolarissimi. (...) I personaggi che poco tempo prima venivano descritti come eroi nazionali, ora venivano trasformati in uomini comuni senza alcuna aura sacra, e in più interpretati da attori come Sordi, come Gassman, che fino a ieri avevano recitato solo in commediole goderecce, divertenti e molto popolari : questi erano i discorsi che comparvero sui giornali dell’epoca. (...) Tornando alla commedia all’italiana, un po’ tutta quella stagione è stata costruita intorno al gioco di specchi fra pubblico e rappresentazione. Mostravamo un’Italia pusillanime e immorale, ma sulla quale era possibile ridere anche perché era ancora un’Italia povera e tante bassezze erano legate a situazioni di estremo bisogno. Per questo contro i personaggi della commedia non scattava un meccanismo di mera condanna, ma anche di empatia e identificazione. In fondo ho sempre raccontato le storie di gruppi di disperati – oggi diremmo di “sfigati” – desiderosi di cambiare la loro vita con un’impresa che si rivelerà alla fine più grande di loro e che li condannerà al fallimento. I compagni, L’armata Brancaleone, I soliti ignoti... in un certo senso anche Speriamo che sia femmina: sono tutti film che hanno sullo sfondo questo aspetto del fallimento, il fallimento che nasce dalla scelta di una strada sbagliata. Gli italiani si sono fatti dire dal cinema cose che non hanno concesso di farsi dire dal teatro e dal romanzo. Noi rappresentavamo un paese con tratti grotteschi, assurdi, imbarazzanti, ridicoli, ma raccontavamo un’Italia che era sotto gli occhi di tutti: tutti – eccezion fatta ovviamente per la classe dirigente, gli esponenti del governo , gli intellettuali – erano d’accordo nello sbeffeggiare questa Italia, nel divertirsi prendendosi gioco di lei. Oggi non è più così, perché coloro che si accorgono della miseria che ci circonda sono una minoranza. E infatti oggi si tende a raccontare un’Italia nella quale tutto va bene, sono tutti allegri e tutto si risolve sempre nel migliore dei modi. Penso a quei film tipo i cinepanettoni pieni di “divertimento”, parolacce, gesti sconci e battute da quattro soldi. Questi film mirano a far dimenticare tutto, a obnubilare completamente le coscienze. Forse il benessere diffuso che oggi caratterizza l’Italia – nonostante la crisi e le difficoltà, oggi nessuno finisce più in mezzo alla strada, oggi nessuno ha più veramente fame, a nessuno manca più il cibo come succedeva dopo la guerra – ha spazzato via lo spirito di rivolta che c’era allora e quindi il furore creativo che sempre accompagna lo spirito di rivolta. (...) Oggi la sinistra non c’è più e la società è sostanzialmente riconciliata con se stessa. (...)
OGGI IL CAPITALE trionfante si presenta nella sua forma più feroce, libero da quei vincoli e quelle limitazioni che ne avevano mitigato le pulsioni allo sfruttamento all’indomani del secondo conflitto mondiale, quando su pressione delle lotte del mondo del lavoro eravamo riusciti, bene o male, a edificare una società con una serie di diritti e tutele riconosciute. Con il crollo dell’Urss è venuto meno il polo che per lungo tempo aveva rappresentato – pur con tutti i suoi limiti – un’alternativa al modello capitalista, ma soprattutto un deterrente per il capitale a forzare troppo la mano in Occidente. Il “pericolo” del comunismo ha rappresentato per le classi dominanti occidentali la ragione principale per concedere alle classi subalterne un tenore di vita tale da disinnescare eventuali tentazioni rivoluzionarie.
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