Torino omaggia il maestro di mezzo secolo di capolavori, Bellocchio: “Socialista, pacifista e arrabbiato”
“Non siamo convenzionali, Mario Monicelli è nel mio cuore più di quanto lei possa credere. Rispetto, un attimo di silenzio per rispettare Mario, per favore, per favore!”.
Più che un’orazione, quella di Gianni Amelio è un’ira funebre. A farne le spese, un giornalista di Repubblica, “reo” di aver chiesto al direttore del 28° Festival di Torino e ai membri della giuria presieduta da Marco Bellocchio “un ricordo, un commento” sulla morte del maestro della commedia italiana.
MA QUESTA domanda non s’ha da fare, almeno per Amelio, che “da amico fraterno di Mario” sbotta: “Non riduciamo tutto a una frase convenzionale che leggeremo in tre righe, la prego. Chiedo silenzio e rispetto”.
Attoniti i giornalisti, ma l’ira pare venire da un dolore sincero, irrefrenabile e insieme ineffabile: “Non ho dormito questa notte, e già dalle prime ore del mattino tutti mi chiedono due battute su Mario: non ce la faccio”, confessa Amelio, scusandosi poi col malcapitato cronista. Per ricordare Monicelli, il festival sotto
Ma quale il motivo dello scarso successo? “Risate di gioia era leggero, si inseriva perfettamente – spiega Amelio – nel coté della commedia di Mario, invece I compagni era l’opera della sua vita”. Uscì sotto le feste, e “lasciò disorientati gli spettatori: da Monicelli si aspettavano qualcosa di più lieve, soprattutto a Natale”. Si cercò allora di correre ai ripari, ricorda il direttore del TFF, “mettendo delle fascette sui flani con una frase strana, per far capire che se il tema era serio si rideva anche: ‘Sciopero con i baffoni”’.
Ma nemmeno con questo espediente sfondò al botteghino: “Credo sia stato il dispiacere più grande della sua carriera, ma era il suo film del cuore: così legato a Torino, proiettarlo oggi è un dovere”. “Non ero un amico personale di Mario – ribatte Bellocchio – e non credo I compagni sia il suo film migliore: i capolavori di Monicelli sono I soliti ignoti, L’armata Brancaleone, i primi lavori con Steno”. Perché? “È un’opera troppo seria e importante, ma lui non era fatto per i film impegnati”, afferma il regista de L’ora di religione, rivelando come “noi cineasti amiamo sempre i nostri insuccessi , come fossero figli venuti male”. “Socialista, pacifista e arrabbiato, eppure Monicelli lo ricordiamo per altro”, prosegue Bellocchio, perché “la sua grandezza non faceva rima con serietà: sia nei Compagni che nella Grande guerra, c’è del sentimentalismo poco originale”.
VICEVERSA , da 10 e lode le sue commedie e il suo porsi di fronte al potere: “Ha sempre mantenuto coerenza e distacco: invecchiando, non ha cercato protezione, ma addirittura è arrivato a un netto rifiuto, assumendo posizioni ancor più radicali che in gioventù”.
Non solo, la peculiarità di Monicelli e altri grandi della stagione d’oro del nostro cinema stava “nella collaborazione: lui lo diceva, il cinema si fa insieme, e allora c’erano squadre che lavoravano gomito a gomito.
Oggi, invece, si vive la solitudine, il regista è responsabile dell’incapacità di condividere con altri artisti”, lamenta Bellocchio. Ma il ping-pong sui Compagni non è finito: “Ho avuto il privilegio di essergli amico, e so perché l’abbia sempre considerato il suo miglior film, nonostante sotto sotto non lo pensasse... Per anni, Mario ha sofferto l’incomprensione della critica alta, che riteneva la commedia qualcosa di consumistico e basta, lontana dai ranghi della creazione artistica”. Un esempio di questo ostracismo? Boccaccio ’70 (1962), film a episodi girato a otto mani da De Sica, Fellini, Visconti e lo stesso Monicelli: “Fu scelto per aprire fuori concorso il Festival di Cannes, ma di episodi ne rimasero tre: quello di Mario venne tagliato, perché non considerato all’altezza di Federico, Luchino e Vittorio”. Cari compagni, ritorna in mente il Battisti di Gente per bene e gente per male: “Perché non mi volete / forse con un altro mi scambiate / non feci mai del male”.
(Fed.Pon.)
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