ALBERTO BISIN
Il presidente Obama ha raggiunto un accordo con il Congresso americano, ormai in mano ai repubblicani, per estendere per altri due anni i tagli fiscali decisi dall’amministrazione Bush. L’accordo prevede l’estensione dei tagli anche a coloro che dichiarino redditi superiori ai 250 mila dollari, cioè ai «ricchi». Nonostante solo meno del 5% della popolazione abbia redditi di questo tipo, da essi proviene più del 40% delle entrate fiscali relative alla tassa sul reddito. Di conseguenza il «regalo ai ricchi» è notevole, circa 315 miliardi di dollari in due anni. Per avere un’idea dell’ordine di grandezza, si ricordi che lo stimolo fiscale del 2008, il più grande della storia del Paese, era di 800 miliardi in due anni. L’accordo raggiunto però agisce anche su altre voci fiscali, riducendo i contributi pensionistici, alcune imposte alle imprese, e soprattutto la tassa sull’eredità. Infine, l’accordo prevede anche nuova spesa, nella forma di sussidi al credito per gli studi e soprattutto di una estensione di 13 mesi dei sussidi alla disoccupazione. Il tutto, secondo le prime stime, per altri 500 miliardi in due anni. Un secondo stimolo.
Senza un compromesso tra il presidente e la maggioranza repubblicana al Congresso le tasse sarebbero salite per tutti i contribuenti, un risultato inaccettabile in un momento in cui la ripresa, se anche presente, è apparentemente ancora estremamente debole. Qualunque siano le ragioni politiche che hanno motivato Obama ad accettare, essenzialmente in toto, le condizioni poste dal Congresso, gli effetti economici dell’accordo sono difficili da prevedere. Abbassare le aliquote fiscali in una recessione ha effetti positivi, perché incentiva l’attività economica, che risulta al margine più produttiva. Abbassare le aliquote ai «ricchi», per quanto abbia effetti distributivi non desiderabili, ha un importante effetto di gettito: sono soprattutto i ricchi infatti a lavorare meno quando le tasse sono più alte, proprio perché possono permettersi di farlo. (I ricchi hanno anche tipicamente maggiore facilità ad eludere le tasse, e maggiori incentivi a farlo ad aliquote elevate).
Allo stesso tempo, l’estensione dei sussidi alla disoccupazione è anche importante quando, come in questa situazione congiunturale, il mercato del lavoro sia particolarmente poco reattivo. Sia perché tali sussidi provvedono ad una necessaria assicurazione sociale, che perché essi contribuiscono in modo abbastanza diretta al consumo aggregato. D’altra parte gli 800 e oltre miliardi di mancate entrate e nuova spesa non possono che venire dall’indebitamento. Non vi sarebbe nulla di male, a questo servono i debiti, se non fosse che il Paese è già pesantemente indebitato e se le previsioni di crescita della spesa pubblica (da sanità e pensioni soprattutto) non fossero fuori controllo. In queste condizioni, l’accordo appare come un compromesso tra democratici e repubblicani, spesa ai primi e meno tasse ai secondi, senza un piano di rientro dal debito e soprattutto senza una coerente visione di politica economica per il Paese. L’incertezza che ne risulta riguardo ai piani di risanamento della finanza pubblica per i prossimi 10 anni, quali spese saranno tagliate e quali tasse saranno aumentate, rischia di dar vita ad un effetto boomerang.
Si rischia cioè che l’effetto espansivo della misura sia compensato in larga parte da timori di nuove tasse future che possano avere effetti di raffreddamento dell’attività economica. La situazione economica degli Stati Uniti, da questo punto di vista, non è essenzialmente diversa da quella dell’Europa: entrambe abbisognano di una politica fiscale espansiva nel breve periodo che eviti però percorsi di indebitamento non sostenibili. Sono necessari quindi vincoli alla spesa futura che siano credibili oggi, come riforme serie e incisive di sanità e pensioni, riforme che la classe politica, in America come in Europa, sembra in gran parte incapace di perseguire.
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