Esce oggi con Giunti una nuova edizione della Costituzione (125 pagg. 8 euro). Qui di seguito uno stralcio della prefazione di Marco Travaglio.
di Marco Travaglio
A seconda di come la si legge, la Costituzione della Repubblica italiana può essere un capolavoro di serietà o di comicità. Di serietà, perché basta pensare a come sarebbe il nostro povero Paese se tutti i 139 articoli della Carta fondamentale fossero stati sempre e da tutti attuati, per farsi un’idea della statura politica, morale e anche grammaticale dei Padri costituenti che la scrissero più di sessant’anni fa (e, per contrasto, del nanismo politico, morale e anche grammaticale che contraddistingue i loro presunti eredi di oggi). Di comicità, perché basta confrontare i princìpi enunciati nella Costituzione e la realtà italiana di tutti i giorni per esplodere in una risata omerica, per quanto amarissima.
È DAL 1980, quando Bettino Craxi e Giuliano Amato lanciarono l’idea della “Grande Riforma” della Costituzione, in senso presidenzial-cesarista, che orde di politicanti e costituzionalisti della mutua fanno carriera delegittimando la Costituzione e trattandola come un ferrovecchio. Poi venne Berlusconi, che da sedici anni pretende di ridisegnarla a sua immagine e somiglianza (su misura dei suoi delitti, s’intende: perché, se lui fa una cosa vietata dalla legge, non è sbagliato quel che fa lui, ma la legge, che va cambiata; e, se la Costituzione non lo consente, non è sbagliata la legge, ma la Costituzione, che va riformata). Ma, siccome il berlusconismo ha infettato anche il centrosinistra, la stagione più pericolosa per la nostra Carta fondamentale fu proprio il quinquennio dell’Ulivo (1996- 2001), quando i padri “ricostituenti” Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi si accordarono per riscriverne l’intera seconda parte in quell’obbrobrio che fu la commissione Bicamerale, la quale partorì alcune orrende bozze – fra l’altro scritte con i piedi – per manomettere l’indipendenza della magistratura (la “bozza Boato” somigliava paurosamente al Piano di rinascita democratica della P2 scritto a metà degli anni Settanta da Licio Gelli e dai suoi consulenti occulti), per scardinare gli altri poteri di controllo e introdurre un semipresidenzialismo senza bilanciamenti, in nome di un presunto “primato della politica” sconosciuto nelle democrazie liberali e negli Stati di diritto, dove il primato è sempre e soltanto della legge. Per fortuna il bulimico Cavaliere, che al termine del percorso sperava di ottenere anche l’amnistia, quando sentì tirare brutta aria, fece saltare il banco alla vigilia del voto parlamentare che avrebbe dovuto tradurre in legge le bozze bicamerali. Sperava, fortunatamente invano, di riscriversi la Costituzione a proprio uso e consumo nella successiva legislatura: il che avvenne nella leggendaria baita di Lorenzago del Cadore, a opera di noti giureconsulti del calibro di Roberto Calderoli, Aldo Brancher e Francesco D’Onofrio.
Tuttavia, l’aborto chiamato devolution che ne uscì fu poi spazzato via dal referendum confermativo popolare del 2006. Così, delle enormi nuvole di chiacchiere e dei fiumi d’inchiostro prodotti in trent’anni di dibattito sulla “Grande Riforma”, non è rimasta pressoché traccia, se si esclude la riscrittura del Titolo V sul decentramento amministrativo (firmata da Franco Bassanini e approvata nel referendum del 2001) e il nuovo famigerato articolo 111, detto beffardamente “giusto processo”, che ha messo ulteriormente in ginocchio la già malandata macchina della giustizia penale, riassorbendo surrettiziamente in forma di legge costituzionale una norma – il nuovo articolo 513 del Codice di procedura penale – appena sonoramente bocciata dalla Consulta.
Per il resto, un po’ grazie ai cittadini italiani e in massima parte grazie alla vigilanza della Corte costituzionale (che in questi anni ha dovuto ripetutamente difendere l’articolo 3 dai continui assalti del Cavaliere e dei suoi giannizzeri), i tentativi di scardinare la Carta del 1948 sono fortunatamente andati in fumo. Non per nulla la “P3”, smascherata nel 2010, con i vari Flavio Carboni, Denis Verdini, Pasquale Lombardi e Marcello Dell’Utri, si proponeva proprio di influenzare i giudici costituzionali, perché avallassero senza batter ciglio le leggi impunitarie varate a getto continuo dalla maggioranza berlusconiana. Nulla, purtroppo, ha potuto la Corte costituzionale contro il progressivo e surrettizio svuotamento della Carta fondamentale, scavata dall’interno con leggi ordinarie e prassi quotidiane che ne hanno snaturato lo spirito, lasciandone formalmente in vigore la lettera.
CONTRO QUESTA continua erosione avrebbero dovuto intervenire i capi dello Stato, con un uso più largo e responsabile del potere di rinvio delle leggi alle Camere: ma, fatta eccezione per Oscar Luigi Scalfaro e, in parte, per Carlo Azeglio Ciampi, sono venuti meno al loro dovere di tutelare non solo il testo, ma anche il senso profondo della Costituzione, in nome di una malintesa ragion di Stato espressa nelle oscene formule del “male minore” e della “limitazione del danno”. Per questo furono in molti a sorridere, tre anni fa, quando nel sessantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione, il cosiddetto ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini annunciò un’iniziativa in grande stile per promuoverne lo studio in tutte le scuole. Forse avrebbe fatto meglio a pretendere che la conoscessero almeno i suoi colleghi di governo, che quotidianamente ne fanno strame perché non hanno la più pallida idea di che cosa contenga quel misterioso libriccino uscito dall’Assemblea costituente nel 1948.
1 commento:
Bella tosta la prefazione, della quale questo è un segmento. Naturalmente, dal Quirinale non verranno risposte.
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