PAOLO MASTROLILLI
La reazione più sorprendente alla triste vicenda di Cuffaro è la nostra sorpresa nel vederlo entrare in carcere. L’ex governatore della Sicilia riceve attestati di rispetto per aver preso la strada di Rebibbia.
Tutto questo poche ore dopo la conferma della sua condanna in Cassazione, ma in qualunque Paese normale un gesto del genere sarebbe apparso semplicemente come un dovere. Anzi, la gente si sarebbe aspettata le dimissioni dalle cariche pubbliche molto prima. Perché, invece, in Italia restiamo quasi a bocca aperta davanti al politico che va in prigione?
La risposta probabilmente sta nella nostra storia e nella nostra cultura. I politici, da noi, sono stati quasi sempre considerati degli intoccabili: la legge è uguale per tutti, ma per loro un po’ meno. Anche ripensando alla stagione di Tangentopoli, quelli finiti in carcere per condanne definitive non sono molti. Abbiamo visto arresti «preventivi», maturati durante blitz legati ad indagini di mafia o corruzione, che peraltro hanno generato polemiche mai sopite. In pochi casi, però, i politici hanno varcato davvero la porta del carcere, quando la loro colpa è stata definitivamente dimostrata nelle aule dei tribunali.
Naturalmente non ci sfuggono le discussioni ancora aperte sulla giustizia ad orologeria e i sospetti contro la magistratura militante, e non abbiamo alcun prurito giustizialista. Però un Paese dove la certezza del diritto si piega quando incontra la politica, o dove si alimenta il dubbio quotidiano sull’esistenza di tribunali che facciano onestamente il proprio lavoro, genera pericolosi risentimenti da parte dei cittadini, costretti ad abituarsi all’idea che i leader democraticamente delegati dal popolo a governarli appartengono ad una razza diversa.
Altrove è vero l’esatto contrario. In molti Paesi a cui amiamo paragonarci, dai politici si pretende più onestà e più rispetto delle leggi e del sistema giudiziario, proprio perché hanno ricevuto un sacro mandato a gestire la cosa pubblica. Facciamo giusto un paio di esempi recenti, per non tediarvi con le antiche storie di «Honest Abe» o con la leggenda di George Washington, che non riusciva a raccontare bugie neppure quando da bambino mollava colpi di accetta agli alberi di ciliegio del padre.
Il 10 gennaio scorso una corte del Texas ha condannato a tre anni di prigione l’ex leader della Maggioranza repubblicana al Congresso americano, Tom DeLay. La sua colpa: aver raccolto 190.000 dollari di donazioni da aziende private, e averli poi girati ad alcuni candidati locali, facendoli transitare dai conti della sede nazionale di Washington del Partito per far perdere le tracce della loro origine. La legge del Texas vieta ai politici di usare fondi corporate e DeLay è stato condannato per riciclaggio, avendo organizzato il viaggio dei soldi dal suo stato a Washington, e ritorno.
Durante la presidenza Bush, Tom era considerato il terzo politico più potente d’America. Lo chiamavano «The Hammer», il martello, per come faceva filare i suoi colleghi in Parlamento. Eppure il giudice Pat Priest, citando la necessità «per coloro che scrivono le leggi di essere obbligati a rispettarle», lo ha spedito in prigione. Poi DeLay è uscito, pagando una cauzione di 10.000 dollari, ma solo perché era la condanna di primo grado e aveva presentato appello.
In Gran Bretagna, invece, il 7 gennaio è finito in prigione l’ex parlamentare laburista David Chaytor. È stato condannato a 18 mesi di reclusione perché aveva chiesto rimborsi spese che non gli competevano: abitava in una casa di sua proprietà, ma sosteneva con documenti falsi di pagare l’affitto alla figlia. In totale aveva sottratto allo Stato circa 20.000 sterline, e quando lo avevano scoperto aveva ammesso la colpa, aveva chiesto scusa e promesso di restituire il malloppo. Niente. Il giudice Saunders lo ha mandato dentro lo stesso, con questa spiegazione inflessibile: «Le sue false dichiarazioni hanno leso l’alto livello di fiducia riposto nei membri del Parlamento affinché facciano solo rivendicazioni legittime. Tali offese hanno conseguenze molto più ampie ed importanti di quelle che si possono trovare in altri casi simili, e cioè l’effetto che hanno avuto e avranno sulla fiducia del pubblico verso i politici».
È un po’ la stessa logica che nel 1964 spinse
Nel «Federalist» James Madison scriveva così: «Se gli uomini fossero angeli, nessun governo sarebbe necessario. E se gli angeli governassero gli uomini, non sarebbero necessari né controlli esterni, né interni, sullo Stato». Però siamo governati dagli uomini. I controlli servono e l’Italia non diventerà mai un Paese normale, fino a quando si sorprenderà nel vedere che un politico, condannato in via definitiva dalla Cassazione, entra in carcere.
6 commenti:
Finalmente trovo un articolo sull'argomento, mi dispiace solo che esprime la mia stessa amarezza. Oggi mi sono sentita fuori posto, non ci capivo nulla. L'arresto di Cuffaro doveva essere motivo di esultanza per tutti quelli che come me da anni reclamiamo giustizia. MI aspettavo un tam-tam di esultanza su internet e invece... tutti dietro al caso-ruby-bunga-bunga...
Non è vero niente, gli italiani non vogliono giustizia... vogliono solo avere gli argomenti giusti per polemizzare, tutto qua!
Anch'io son rimasto piuttosto sorpreso. Ma non è finita. Sto per postare un articolo di Luca Telese strabiliante: lo ammira!
Si vede che non capisce i comportamenti mafiosi. Vedrai.
Senza sapere di questo Tuo commento, ho letto e detto la mia sull' articolo di Telese.. posso dire che siamo a "FRittole" sul vero senso della parola.
Dal film.. "Non ci resta che piangere" di Troisi-Benigni!
Non giustifico Telese, non è mica un pincopallino qualunque..
A meno che... la sua non sia una provocazione... Ora che ci penso, mi pare inverosimile quanto ha scritto... Se il suo articolo fosse un modo per scuotere la "calma piatta" davanti a questo arresto??...lasciami riflettere :)
Non credo si tratti di provocazione. Nel Fatto Quotidiano i polemisti sono Massimo Fini e Oliviero Beha.
Telese le pensa davvero le cose che ha scritto, forse per un malinteso orgoglio o arroganza intellettuale.
Insomma, una caduta di stile.
Un articolo di condanna può provocare una rerazione, non un articolo in cui si esprime la propria ammirazione.
Forse ciuò che ha tratto in inganno Telese è il cambio di registro e di stile a 180° di Totò vasa vasa
Allora è... triste e pazzesco!!
Credo che Telese sia il classico avvocato delle cause perse. Penso che egli pensi che ormai Totò vasa vasa sia finito come politico e mafioso: sbaglia di grosso!
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