GIAN ENRICO RUSCONI
Le donne che ieri sono scese in piazza hanno dato una clamorosa risposta alla questione esplosa nei giorni scorsi, su come si debba intendere la moralità pubblica e politica, quando entra in gioco il comportamento privato dell’uomo politico.
I cittadini, almeno quelli che si suppone siano rappresentati dal sistema mediatico e dalle manifestazioni di piazza o di teatro, sono in contrasto su come giudicare il presidente del Consiglio. Su come giudicarlo dal punto di vista dell’etica privata, che l’uomo politico deve rispettare quando riveste alti ruoli istituzionali.
Ma che cosa ne pensa quella che una volta si chiamava «maggioranza silenziosa»? Esiste ancora? Per molti aspetti è confluita nel berlusconismo del 1994 - quello che Giuliano Ferrara sogna ora di poter resuscitare. Ma quel ciclo si è compiuto, si è consumato finendo nell’impotenza politica. La tragedia è che questa impotenza rischia di trasmettersi all’intera classe politica. Alla nazione. Uso intenzionalmente, con tristezza, il concetto di «nazione», che il 17 marzo celebrerà in absentia anche la fine della finzione della sua esistenza. La nazione intesa appunto come condivisione solidale di valori morali prima ancora che politici.
Si sta ora ricostituendo una nuova maggioranza (un tempo «silenziosa») che interagisce con il sistema mediatico? E’ difficile dirlo. Intanto Berlusconi da aspirante «presidente del popolo» diventa tenace parlamentarista e punta sul numero degli scranni parlamentari occupati dai suoi seguaci per sopravvivere e andare avanti. Per contrapporsi all’azione «eversiva dei pubblici ministeri». La giustizia anziché sede della chiarificazione e della restaurazione dell’etica pubblica è additata come luogo di oscure trame.
Come siamo arrivati a questo punto? Perché si è prodotta una divisione di valutazione tra i cittadini? Perché è diventato inevitabile ricorrere alle grandi manifestazioni pubbliche? Rispondere a queste domande significa fare i conti con l’impronta che il berlusconismo ha dato alla vita civile e politica italiana - e alla sua moralità. Qualunque cosa succeda, siamo davanti ad una transizione al post-berlusconismo già pregiudicata.
Che lo scontro avvenga ora esplicitamente sul confine tra moralità privata e moralità pubblica non sorprende. Il successo iniziale di Berlusconi puntava espressamente a ridisegnare i confini tra questi due termini, inizialmente declinati in termini esclusivamente sociali ed economici. Liberalismo, anti-burocratismo, anti-statalismo, anti-moralismo, anti-comunismo. Di nuovo è il sogno evocato al Teatro dal Verme di Milano. Ma questa volta l’esibizione delle «mutande» segna un salto di qualità: il diritto alla trasgressione privata viene presentato come segno di emancipazione dalla presunta oppressione giudiziaria.
Chi trae beneficio dal berlusconismo - non importa se effettivo o ancora in prospettiva (ma intanto il «vecchio sistema» si è sfasciato irreversibilmente...) è convinto che esiste un nesso positivo tra il comportamento privato del Cavaliere e il suo successo politico. Dopotutto Berlusconi ha vinto la prima e più grande della sue battaglie - quella del conflitto di interessi tra il suo enorme potere economico privato e il suo ruolo pubblico. Questo conflitto infatti è stato praticamente archiviato. Chissà quanti sostenitori del Cavaliere (forse anche qualcuno tornato silenzioso) si augurano che vinca anche questa battaglia che in un primo tempo appariva meno seria della prima, invece è più insidiosa.
Ma allora - molti si chiedono - perché Berlusconi non si presenta davanti al giudice per chiarire le sue buone ragioni? Il solito Ferrara giorni fa, prima delle sue ultime esibizioni, ha ripetuto la tesi liberale che «il peccato non è reato». In realtà nel caso Ruby, questo argomento non regge perché l’oggetto della controversia consiste proprio nel configurarsi di un reato previsto dalla legge liberale. Allora si preferisce eludere l’oggetto e sparare in generale contro il puritanesimo bacchettone.
Il resto lo fa il deragliamento del linguaggio pubblico verso lo scurrile, esibito come emancipatorio. E’ un modo volgare per ribadire la pretesa di ridefinire i confini tra moralità privata e moralità pubblica, nella convinzione che la presunta maggioranza degli italiani sia pronta per questo passaggio. Verso dove? Che non sia affatto così lo dimostrano le manifestazioni di donne e di uomini di ieri e i forti dibattiti da esse innescati.
A questo punto vorrei aggiungere un’osservazione sul mondo cattolico che, al di là delle nette dichiarazioni di principio, reagisce con imbarazzo a quanto sta accadendo. E’ diviso, ancora una volta. Di fronte all’annunciata protesta delle donne qualcuno non si è trattenuto dal rinfacciare loro: «Che cosa pretendevate voi donne laiche, dopo quello che avete fatto della vostra riconquistata libertà?». E’ un maldestro tentativo di rovesciare il quadro delle responsabilità.
Uno dei «capolavori» politici del berlusconismo è stata la frattura creata nel mondo cattolico. Ad esso si è presentato e si presenta come la diga anti-laicista, semplicemente garantendo il pacchetto dei «valori non negoziabili». Il resto dovrebbe rimanere il peccato personale del Cavaliere, stigmatizzabile solo come tale. Gli ultimi attacchi di Berlusconi alla magistratura avrebbero dovuto modificare l’atteggiamento politico della consistente componente cattolica che lo sostiene. Se il comportamento pratico di quest’ultima continua a rimanere elusivo, il mondo cattolico italiano non sarà più in grado di offrire una classe politica capace di guidare il Paese in nome dell’etica pubblica e nella pluralità delle sue componenti.
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