domenica 27 febbraio 2011

Politici mutanti


PIERFRANCO PELLIZZETTI

Giorni fa, scrivendo nel blog de Il Fatto Quotidiano sul senatore Gaetano Quagliariello, ho scoperto che molti visitatori ne ignoravano i trascorsi pannelliani. Soprattutto i più giovani, i quali ora stentano a raccapezzarsi apprendendo che quel parlamentare, il bilioso megafono di imbarazzanti panzane sullo zio di Ruby Rubacuori o di raccapriccianti ignominie tipo “l’Englaro assassino”, il berlusconiano allo sbaraglio nelle reti televisive ha nientemeno un passato di inveterato laicista tra le file dei radicali; dove promuoveva progetti di testamenti biologici, arrivando perfino a farsi incarcerare per aver manifestato contro quelle centrali nucleari che ora sembrano la panacea agli Scajola, suoi attuali compagni di partito.

Ancora una volta si potrebbe chiudere la faccenda con la vecchia battuta secondo cui “lo scettico è un metafisico deluso”. Ma sarebbe troppo poco, visto che la mutazione genetica nel nostro personale politico è diventata un fenomeno di massa, dopo le transumanze che hanno accompagnato la nascita della cosiddetta Seconda Repubblica e relativo “liberi tutti”. Migrazioni accelerate e largamente intercettate dalle campagne acquisti di
Silvio Berlusconi; a partire dal momento in cui doveva allestire il pacchetto di mischia per assaltare le istituzioni. Con una lista della spesa giocata in ogni direzione. A riprova che le callosità dell’anima, prodotte dalla vita quotidiana, in molti uomini pubblici si erano ormai ossificate, inducendo negli sventurati l’insensibilità alla decenza. Non pochi di quegli arciscettici erano ex comunisti, personaggi con lo stigma dello spretato e il relativo carico di risentimenti verso la chiesa che avevano abbandonato: la combriccola è capeggiata da Giuliano Ferrara, in cui spiccavano nomi di un certo pregio, come il filosofo Lucio Colletti o l’elzevirista barocco Saverio Vertone.

Più scontata la pesca della fauna che sguazzava in quella terribile scuola di cinismo e relativi brogli che furono i parlamentini universitari (l’Unuri, spazzata via dal ’68), di cui un Maurizio Sacconi o il Daniele Capezzone sono i più fedeli allievi, nella torma degli smarriti che trovarono asilo nel castello stregato su cui impera la figura del corruttore principe Berlusconi. Altri avevano percorsi ancora più tortuosi, come il piduista-lombardiano Fabrizio Cicchitto o il teologo Gianni Baget Bozzo, marchiato da ferite esistenziali che lo avevano condotto all’adorazione del Potere per il Potere e le relative incarnazioni.

Va detto che una delle ragioni del successo dell’attuale premier,
omarino modesto e di minima cultura, consiste proprio nella sensibilità animalesca con cui fiuta negli interlocutori questa friabilità del carattere che li rende arruolabili senza riserve. Non di rado sedotti dalla barbarica ferocia dell’amorale affarista, vissuta come segno di incommensurabile vitalità a fronte delle vaghezze dei tenorini e dei chierichetti che pretendono di essere l’opposizione. Dunque un fenomeno più psicologico che non politico, da portare alla luce; da mettere in evidenza, per consentire al corpo elettorale la presa d’atto dei percorsi biografici aggrovigliati di chi li rappresenta.

Al riguardo – tra il serio e il faceto – si potrebbe proporre una riforma in linea con le logiche aziendalistiche oggi imperanti: un kamban per ciascun rappresentante del popolo. Di cosa si tratta? Il kamban è una soluzione tipica del modello Toyota e consiste nel cartellino che accompagna il montaggio di ogni vettura su cui vengono segnati i vari passaggi. Ad esempio, nel caso dell’aspirante viceministro
Aurelio Misiti: Pci, Cgil, Idv, Mpa di Lombardo e ora in trattativa con Berlusconi (settimane fa era tra i 315 che gli hanno votato a favore). Il rischio in questa ipotetica politica alla giapponese è che, smascherato dal kamban, qualcuno finisca per fare harakiri.

Il Fatto Quotidiano, 26 febbraio 2011

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