C’è un espediente a cui i difensori di Berlusconi ricorrono spesso con successo. All’alternativa accettare o non accettare il processo, sostituiscono prontamente l’altra, andare o non andare subito al voto. Ovvio che si tratta di un salto logico che si descrive bene con l’espressione americana “confondere le mele con le arance”. L’idea che il popolo sia l’unico vero giudice è un’idea sovietica del tutto estranea alla democrazia. E infatti richiede che il partito venga collocato al di sopra dello Stato e che lo Stato sia un contenitore organizzativo dei valori e principi del partito. Acqua passata, direte. Eppure lo sentite ripetere ad ogni talk show anche da persone estranee, almeno in apparenza, alla suprema egemonia del partito e dunque del suo intangibile leader Berlusconi. Mi meraviglia la facilità con cui rispettabili oppositori (penso a Vendola in Annozero del 10 febbraio) cadono nella trappola e prontamente accettano di cambiare discorso. “Le elezioni non ci fanno paura. Siamo pronti!”.
In tal modo resta perennemente in sospeso la domanda: se i giudici decidono per il processo immediato, Berlusconi si sottometterà alla legge e alle regole? Teoricamente sappiamo tutti che il rifiuto della legge e delle regole, sia pure con il sostegno della consueta batteria di avvocati, significa ribellione e crea un caso di lotta alle istituzioni di cui si ignorano solo gli strumenti o modalità che saranno prescelti. Ma sempre di rivolta si tratta. Poiché chi scrive non partecipa a nessuno dei diversi tipi di spettacoli televisivi, non resta che sperare che qualcuno dei protagonisti raccolga il suggerimento di non cambiare discorso. Basta dire che “dopo parleremo di ritorno alle urne e al giudizio del popolo, ma prima rispondete alla domanda: Berlusconi va o non va al suo processo per concussione e favoreggiamento della prostituzione minorile? Se non va e si mette al di fuori della legge, come intendete difenderlo?”.
E qui interviene la seconda questione che, noto, non viene mai sollevata. Continuiamo a lasciar credere che, secondo l’immaginario berlusconiano, “queste cose” accadano solo in Italia, perché in Italia ci sono i giudici comunisti o “toghe rosse”. E’ vero, qualche volta si fa riferimento al presidente della Repubblica e al primo ministro di Israele, imputati dai giudici di seri reati, entrambi dimissionari, entrambi processati senza alcun coinvolgimento politico. Ma l’idea, tipicamente comunista, di Berlusconi, di ordinare alla Tv di Stato la messa in onda immediata del film di spionaggio Le vite degli altri per poi ( il giorno dopo ) denunciare l’inchiesta sulla prostituzione minorile a lui contestata come una evidente intrusione spionistica e politica nella vita privata di Berlusconi, dovrebbe richiamare alla memoria di tutti il grande evento americano che è quasi identico alla vicenda italiana, con la sola eccezione della partecipazione straordinaria di ragazzine minorenni da strappare, con bugie di Stato, alla tutela della polizia.
Sto parlando del Watergate, storia esemplare del confronto fra giustizia e politica al più alto livello con molta resistenza da parte di un potente colpevole. Storia esemplare perché, nonostante il comportamento fuori legge dell’accusato e dei suoi stretti collaboratori, nessuno, nei tre poteri dello Stato, è uscito dalle righe, nessuno ha violato la normale e costituzionale assegnazione dei ruoli. Ed è toccato al partito di appartenenza dell’ imputato di indurre l’imputato stesso alle dimissioni.
L’imputato era Nixon, che godeva di ampia maggioranza alla Camera e al Senato, era appena stato rieletto (secondo periodo di una presidenza di successo) e aveva, al momento del confronto con i giudici, un sostegno popolare molto solido. La vicenda Nixon – Watergate, divenuta libro e film di immenso successo, dopo l’ostinazione dei giornalisti Woodward e Bernstein a raccontare tutto, ogni giorno, sul giornale della capitale americana Washington Post è di gran lunga la più adatta a spiegare agli italiani che cosa avviene in uno Stato democratico se un politico potente diventa indiziato, indagato, imputato di una magistratura inflessibile che scardina l’ordine della volontà popolare. Il caso Watergate, ovvero azione e reazione della democrazia americana in caso di conflitto istituzionale, ci guida a capire l’esperienza che stiamo vivendo assai meglio degli eventi nella Germania comunista.
Anzi, diciamo pure che la trasmissione forzosa e obbligata di quel film nel mezzo di un momento di confusione e di tensione fa già parte di un atto di rivolta del potere esecutivo contro quello giudiziario ben più concreto e attivo (attivo nel senso di agire) di affermazioni aggressive e improprie. E tuttavia basta il buon senso per scansare questo colpo brutale e volgare (data la potenza del mezzo Tv di Stato di cui si è liberamente abusato) e dire che, con evidenza, il film tedesco non c’entra niente e non tocca il problema che stiamo affrontando. Invece Watergate è un modello pertinente, calzante, utile. Vediamo perché.
Primo. Mentre è presidente degli Stati Uniti, rieletto con un largo margine di voti e con il sostegno della maggioranza alla Camera e al Senato, Richard Nixon è lambito da una inchiesta che appare subito importante e a cui i media danno molta visibilità: un tentativo di scasso e di furto di documenti nel quartiere generale del partito democratico. In apparenza è storia passata (la campagna elettorale che ha ha portato alla rielezione di Nixon). In realtà diventa sempre più evidente un coinvolgimento nel tentato furto di stretti collaboratori del presidente. Un punto è subito chiarito dalla magistratura: la volontà popolare non ha niente a che fare con l’inchiesta della magistratura. Il reato era noto al momento del voto, e le voci di un coinvolgimento della Casa Bianca erano insistenti. Dunque Nixon ha avuto il voto da elettori che sapevano. Ma un reato è un reato e la volontà popolare non lo cancella. Si tratta di due strade diverse.
Secondo. L’inchiesta si è rapidamente diretta verso gli uffici presidenziali, prima interrogando e poi arrestando a uno a uno i più stretti collaboratori del presidente. Nessun membro del partito del presidente e nessuno dei suoi avvocati ha sollevato il caso di persecuzione politica. Nessun membro del potere legislativo si è assegnato compiti di interferenza o di mediazione nello scontro fra esecutivo e giudiziario.
Terzo. Quando lo “special prosecutor” ha messo sotto accusa il ministro della giustizia e sua moglie, la notizia è apparsa clamorosa ma non uno scandalo e non ha fermato in alcun modo la vita politica americana.
Quarto. Il presidente è divenuto protagonista della inchiesta quando l’indagine ha scoperto e iniziato a sequestrare i suoi nastri (Nixon registrava ogni visita e ogni conversazione in ogni stanza della Casa Bianca). Giornali e televisioni hanno dato un tale spazio alla trasmissione e pubblicazione delle trascrizioni di quei nastri da dare luogo a vere e proprie interruzioni e – come dire – “pause politiche”, persino negli uffici. New York Times e Washington Post vi hanno dedicato per settimane intere pagine. La difesa di Nixon ha intensamente lavorato a screditare o interpretare i materiali divenuti pubblici, ma senza mai creare lo scandalo dell’attentato al presidente o del colpo di Stato o della pubblicazione indebita.
Quinto. È bene ricordare una peculiarità assolutamente unica del sistema giudiziario americano, che dimostra la fiducia nella Costituzione e nella democrazia di quel Paese. Poiché tutti i “prosecutors” o “District attorneys”, ovvero i pm, sono di nomina politica e governativa, nessuno di essi può inquisire un membro del governo. Quando si verificano casi come quello che sto raccontando, il presidente stesso (in questo caso l’indagato) nomina uno “special prosecutor” che ha l’unico compito di questa sola indagine. Tocca al presidente dare prova di coraggio nominando un uomo al di sopra delle parti. Ma tocca anche al nominato mostrare all’opinione pubblica di essere davvero indipendente. Infatti lo scrutinio dei media è costante e senza tregua. Nixon ha ricusato diversi “special prosecutors” e sempre il nuovo nominato è risultato implacabile.
Sesto. C’e'poi un terzo personaggio, il giudice. Anche il giudice, a questo livello, è di nomina politica. Nixon si è trovato di fronte un esperto e implacabile giudice federale, l’italo americano Sirica, che ha tenuto ben stretto il cerchio delle accuse contro l’uomo più potente degli Stati Uniti. Nessuno ha mai attribuito al partito repubblicano le colpe di Nixon. Ma, per il bene di quel partito, il più autorevole dei senatori, l’anziano uomo di destra Goldwater, ha suggerito fermamente a Nixon di dimettersi per evitare l’impeachment o processo del Senato a cui il giudice Sirica avrebbe passato documenti e prove. Si deve al senatore Goldwater e alle dimissioni di Nixon se il fatto, per quanto grande e scandaloso, è rimasto per sempre responsabilità del solo colpevole e non ha macchiato la reputazione del partito repubblicano. E si deve alle radici profonde della democrazia americana se i due giornalisti che per primi hanno seguito la pista del crimine, ne hanno pubblicato i documenti, e hanno scoperto e usato la fonte di “gola profonda” sono diventati gli eroi e non i perseguitati della vicenda.
Ecco dunque un impegno che il Presidente Rai Garimberti e il Presidente della Commissione di Vigilanza Rai, senatore Zavoli, dovrebbero assumersi con urgenza: esigere la trasmissione, subito, in prima serata del film Tutti gli uomini del Presidente che racconta la vera storia dello scontro fra poteri dove la democrazia funziona e
Il Fatto Quotidiano, 13 febbraio 2011
domenica 13 febbraio 2011
Processi, la versione di Nixon
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