L’uomo che ha avvistato la più grande discarica in mare
di Marco Dolcetta
Il disastro provocato dalla fuoriuscita di petrolio dal pozzo della BP nel Golfo del Messico è ancora vivido nella nostra memoria. Poche cose, come lo stato di salute del mare, turbano la nostra sensibilità ambientalista. Sarà perché noi stessi siamo fatti d’acqua e “nell’acqua” ci formiamo, ma quando al mare vediamo l’inquinamento da rifiuti così molestamente visibile in quelle correnti di residui di plastica e schiuma che affliggono il nostro contatto con quell’acqua che vorremmo vedere cristallina e densa di umori salmastri così come era una volta, allora realizziamo che qualcosa bisogna fare per invertire una tendenza che se incontrastata ci porterà alla rovina. È proprio questa la motivazione che ha spinto Charles Moore a diventare Captain Moore. Un uomo che ormai nei suoi sessanta, ha negli utimi anni solcato gli oceani per più di 40 mila miglia scoprendo una realtà agghiacciante, la plastificazione dell’acqua.
Lo incontro sul molo di Long Beach, Los Angeles. Sto realizzando un film finanziato dalla Fiamm che produce accumulatori sperimentali al sale “ecologici” e per
Laureato in chimica ed ex imprenditore
“PASSAVO ore e ore, nuotando nella baia e osservando i fondali. Allora si poteva, oggi l’inquinamento ha cambiato tutto”. Così, Charles Moore, dopo avere studiato chimica all’Università di San Diego in California, ed avere messo su un mobilificio industriale, decide di vendere tutto e cambiar vita. Con il ricavato della vendita della sua impresa, costruisce un enorme catamarano, Algalita, con cui cominciare a studiare il fenomeno riscontrato lungo le coste californiane relativo alla progressiva scomparsa di alcune specie di alghe facenti parte della flora tipica della costa ed alimento per le specie locali. Ma è solo dopo alcuni anni che, casualmente, Captain Moore scopre quello che diventerà noto come il Great Pacific Garbage patch o il Garbage Vortex localizzato al confine nordest del North Pacific Subtropical Gyre, una area enorme, grande come un continente dove le correnti oceaniche formano un vortice di corrente che racchiude questa massa d’acqua oceanica. “Fu per caso” ci dice Captain Moore, “stavo tornando da una regata dalle Hawaii a Los Angeles, quando, non interessato tanto alla gara, decisi di prendere una rotta poco battuta per la scarsità di venti, quando mi imbattei in una scia che non mi lasciò per giorni e giorni e di cui non comprendevo la natura”. L’equipaggio della Algalita, quindi, sotto la direzione di Captain Moore cominciò a prelevare dei campioni d’acqua di mare da fare analizzare al ritorno dal laboratorio. “Non si tratta come qualcuno ha riportato di una isola di rifiuti solidi e distinguibili, ma di qualcosa di ancor più minaccioso, una immensa zuppa di plastica che si distribuisce dalla superficie fin giù a fondo”. Vista dall’alto questa zuppa di plastica appare come una distribuzione di confetti tra occasionali pezzi di attrezzature da pesca alla deriva. Molti di questi pezzi di plastica non sono visibili a causa del movimento dell’acqua che li spinge appena sotto la superficie per effetto delle onde e delle correnti.
Un pericolo per gli animali
MOLTI di questi pezzi di plastica poi entrano in simbiosi con la flora o con altri organismi che li fanno andare a fondo. È stato stimato che la gran parte di questi residui di plastica, circa l’80%, viene dagli scarichi terrestri, da tutti i tipi di plastica di consumo non smaltiti in modo proprio. Il resto, la minoranza, è da attribuire alle navi ed alle imbarcazioni da diporto e da pesca. Gli scarichi terrestri includono poi i cascami dell’industria della plastica.
“In realtà” ci dice Captain Moore, “la plastica è il lubrificante della globalizzazione”. L’industria del packaging infatti rende possibile il trasporto delle merci così come la realizzazione di beni di consumo di ogni genere. È a questo punto del racconto che Captain Moore dispone su un tavolo i campioni di reperti da lui raccolti nei suoi viaggi. Spazzolini da denti, tubetti di dentifricio, tappi di bottiglia, manici d’ombrello, amalgama di plastica e lava e così via. Ma questo è appunto quel che è visibile, la minaccia vera viene da quel che è meno visibile, da quella zuppa di residui di plastica che minaccia gli equilibri naturali degli oceani. Tale situazione è ora di massima all’erta appunto nel Pacific Garbage Patch dove la concentrazione di parti di plastica è di dieci a uno rispetto al plancton di cui si cibano oltre alle balene altre specie. E poiché questi non distinguono alla vista la diversità finiscono con il cibarsene. Gli esperti parlano di mimic food. Nel laboratorio della Fondazione Algalita vengono analizzati campioni di acqua mista alla poltiglia in essa dispersa e i ricercatori al microscopio con appositi strumenti separano la plastica dal plancton e dagli altri organismi con essa entrati in simbiosi ed è così che si misura la quantità di plastica dal resto. In dieci anni questa è risultata in aumento rispetto al plancton del 60%. Residui di plastica si trovano nello stomaco dei pesci e può provocarne la morte per soffocamento per quanto riguarda i pezzi più grossi, mentre quelli più piccoli possono provocare blocchi intestinali con successiva morte. Ma questi poi diventano cibo per i predatori che ne inghiottono assieme alla preda anche il loro contenuto di plastica. Gli uccelli acquatici, tipo gli albatros, poi sono particolarmente attratti dai tappi di plastica delle bottiglie e spesso dopo averli inghiottiti vanno a morire a terra lasciando come unica traccia della loro esistenza il contenuto del loro stomaco, tappi di bottiglia ed altri pezzi di plastica. Il problema è che come si sa la plastica ha un ciclo di vita molto lungo, nessuno sa quanto così come ancora devono essere portati a termine gli studi sugli effetti che questo mimic food ingerito dai pesci può avere sulla vita marina e quindi sulla catena alimentare che riguarda anche l’uomo.
I danni di uno sviluppo sbagliato
IL CONTENUTO di inquinanti organici persistenti contenuti nella plastica. Molte di queste sostanze sono state provate cancerogene ed altre possono influire sulla riproduzione deteriorando il sistema ormonale. La scoperta di Captain Moore è un’altra agghiacciante evidenza della necessità di riconsiderare il nostro modello di sviluppo basato sullo sfruttamento dei combustibili fossili e dei loro derivati quali la plastica. Se non possiamo pensare di bonificare il Garbage patch, attraverso una migliore coscienza collettiva dei limiti naturali ad un certo tipo di crescita, si può spingere i governi a prendere le misure necessarie a contenere i danni all’ambiente e le minacce al nostro futuro.
4 commenti:
Purtroppo non dobbiamo andare troppo lontano.... l'incuria dell'uomo ha colpito anche da noi, ma i media, sempre più storditi e stordenti non ce ne parlano
http://www.terranews.it/news/2011/01/disastro-sardegna-marea-nera-fatta-casa
Un caro saluto.
Janas
Grazie, Janas, ho recuperato l'articolo e l'ho pubblicato su questo blog. Articoli di siti online specializzati affermano che lo sversamento di petrolio ha inquinato 100 km. di costa, raggiungendo l'Asinara. Terribile.
Si! E la cosa che mi fa rabbia è che non ne parlano.
Sono tempi bui, l'etica pubblica e la morale privata non sono più la stella polare degli uomini politici e dei pubblici (e privati) amministratori.
Il tessuto sociale è così corrotto da essere ormai praticamente irrecuperabile.
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