lunedì 16 maggio 2011

La seconda rifondazione dell'Europa


ENZO BETTIZA

Il «secondo miracolo tedesco», come già lo chiamano, si staglia in tutta la sua potenza e solitaria ambiguità sullo sfondo di un’Europa sempre più disunita e attratta da una sorta di magniloquente cupio dissolvi. Mentre la Germania celebra i suoi trionfi economici e sociali - crescita del 5 per cento su base annua, due volte più dell’America, salari e domanda in salita, disoccupazione in calo, rilancio della produzione automobilistica, fortissimo incremento dell’export con la Cina - vediamo altri smarriti Paesi dell’Unione sferrare un colpo dopo l’altro contro i pilastri della costruzione comunitaria: contro le regole di Maastricht, la stabilità dell’euro, la solidarietà con i soci periferici, soprattutto Grecia e Portogallo, che languono in sala rianimazione senza sapere ancora se li aspetta la rinascita o l’eutanasia.

Sull’onda dei movimenti euronegazionisti di estrema destra, onda che si diceva lunga ed è oggi veloce e corta, si sbaraccano con picconate gli accordi di Schengen. Erano accordi, fra l’altro, di profondo valore simbolico. Avrebbero dovuto rappresentare, con la libera circolazione dei beni e delle persone, un continente alfine rappacificato con la propria storia. Senza dogane, senza dazi, garitte, guardie di frontiera; in una parola, senza linee Maginot e Sigfrido.

Tutto è iniziato con la giusta decisione dell’Italia, coinvolta nell’infinita guerra libica voluta dalla Francia, di concedere un permesso di soggiorno europeo a ventimila migranti tunisini. Il grazie dei francesi, nonché dei loro accoliti belgi e danesi, premurosamente sostenuti dalla Commissione di Bruxelles, è stata la scorretta demolizione dei codici di Schengen. Nel blocco di Ventimiglia è risorto qualcosa che riporta alla memoria lo spirito isolazionista della Maginot mai sopito nei ministeri pesanti di Parigi. Sarà istruttivo anche ricordare che la «guerra umanitaria» in Libia, da cui si è dissociata la Germania non più carolingia, è stata lanciata da un Sarkozy il quale cercava, a suo tempo, di vendere a Gheddafi gli stessi aerei Rafale che oggi bombardano le casematte del Colonnello in Tripolitania.

Le reazioni a catena, innescate dagli eventi nordafricani con rivolte indecifrabili e invasioni di massa inarrestabili, stanno di fatto portando alla chiusura dell’Europa senza frontiere. I populisti antieuropei francesi, fiamminghi, olandesi, danesi, finlandesi, svedesi incalzano e ricattano i rispettivi governi moderati, spaventati dall’ombra di cupe ghigliottine elettorali. Basti pensare all’immagine che dell’Europa dà al mondo l’Ungheria che, da gennaio, ne rappresenta la presidenza. Da Budapest la voce dell’autoritario premier
Victor Orbàn, presidente di turno, ha annunciato inequivocabilmente: «Noi non crediamo nell’Unione Europea, crediamo nell’Ungheria. Il nostro lavoro nell’Unione varrà soltanto se l’Ungheria ne trarrà un tornaconto».

Dubito che la Germania arricchita, che pure ha tratto tanti benefici dall’integrazione europea, voglia o possa fare da locomotiva salvifica di un’Unione che fa acqua da ogni parte: che compie ogni giorno un salto all’indietro, verso il passato degli Stati-nazione, piuttosto che verso il declamato futuro di una Confederazione transnazionale. La locomotiva è a suo modo timida, incerta, priva di un’incisiva bussola continentale, e preferisce scorrere sui binari sicuri del commercio estero più che affrontare i marosi della politica estera. Le bastano per ora come alleati e seguaci i polacchi, con crescita al 4 per cento prossima a quella di Berlino, poi i lituani, gli estoni, i lettoni, i cechi e gli slovacchi. Insomma un «Sonderweg», o «cammino speciale», che in termini aggiornati e non aggressivi potrebbe evocare quello del Reich prussificato da Bismarck. La cautissima cancelliera Merkel, che in Germania è ritenuta un primus inter pares, viene invece considerata come un’imperatrice nei Paesi dell’Est: pacifica e facoltosa sovrana di un rinnovato «Drang nach Osten», la corsa all’Oriente. Oggi si usa dire che esiste un’Europa a quattro velocità. Forse sarebbe più esatto specificare a ventisette. Un bel numero, idoneo a segnalare qualcosa di troppo, che rischia di paralizzarsi e soccombere per eccesso di frazionamento. La verità è che l’Europa che conosciamo ed esaltiamo a parole da mezzo secolo, l’Europa che proviene dalla Ceca di Schuman e Adenauer, poi da Roma con De Gasperi e Martino, poi da Maastricht, infine da Lisbona, non funziona più.
Ormai s’avverte che una sua fase lunga e travagliata è finita sull’orlo dell’autodissolvimento. Nelle più ambiziose edificazioni storiche le ombre purtroppo fanno parte integrante dello spartito.

Superarle, dissolverle come? Accettando passivamente un anacronistico ritorno al vecchiume del passato? Oppure cessare di contemplare e di contare ipnotizzati i grandi numeri del miracolo tedesco, e cominciare a pensare a un secondo miracolo europeo: oramai, chi ha occhi per vedere non vedrà altra via d’uscita se non quella di una seconda rifondazione dell’Unione Europea, dopo l’inevitabile e forse imminente estinzione della prima.
Magari invertendo le piste di decollo e partendo non più dall’economia ma soprattutto dalla politica.

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