Come i film possono anticipare la realtà o renderla plausibile all'immaginario collettivo
06 Maggio 2011 di Anton Giulio Mancino
I dubbi che in questi giorni stanno rincorrendosi riguardo alla morte di Osama Bin Laden hanno un loro fondamento. Non sappiamo quanto nei fatti o nelle circostanze specifiche, ma di sicuro nel valore testimoniale che le immagini, specialmente quelle audiovisive, hanno assunto nella pratica conoscitiva quotidiana. Se non ci sono le immagini, possibilmente in movimento, i video dell’uccisione o anche solo del cadavere, il delitto non può essere autenticato.
Se non c’è il corpo, né – soprattutto – l’immagine “viva” del morto, secondo standard tecnologici adeguati ai tempi, il morto forse non esiste nemmeno. L’assuefazione agli audiovisivi insomma non contraddice l’effetto di realtà che ancora essi riescono a veicolare, pur tra smentite, contraffazioni, dimostrazioni che viaggiano sulla rete delle manipolazioni. Tanto più facili e pratiche se compiute sulle immagini medesime, che hanno sostituito l’esperienza diretta e fatto vacillare complessivamente la credibilità di tutto ciò che accade. Non occorre sforzarsi più di tanto per cercare l’origine di questa trasformazione storica e antropologica, che ci porta a credere almeno in prima battuta, d’istinto, salvo poi persino ricredersi, dubitare. L’origine è il cinema, il dispositivo di trasmissione e ricezione che da oltre un secolo, cambiando pelle nelle più svariate occasioni, sopravvivendo a suo modo, adattandosi all’evoluzione/involuzione della società. Senza il cinema, quello dello origini, quello che è diventato oggi, non ci sarebbe un nesso tra l’autenticità di un fatto, di una notizia, di un evento e il suo necessario, complementare simulacro audiovisivo. Ugualmente si ha ragione di ritenere che il cinema nella sua forma tradizionale sia in crisi come mezzo di comunicazione e di intrattenimento globale. Sopravvive, certo, con il supporto di nuovi media, nuove piattaforme di consumo, che in qualche modo lo vampirizzano, ne cambiano l’assetto, le modalità espressive. Eppure si commette un grave errore nel sottovalutarne, ancora oggi, la portata anticipatrice rispetto ai fatti stessi. Che passano prima per il cinema, come banco di prova, come “test screening”, poi giungono nella realtà, una realtà che li riflette, li riproduce, li diffonde. Poiché se spesso accade di sentir dire ai giornalisti, di fronte a un avvenimento reale di cui si dà notizia, che ricorda la scena di questo o quel film, non si può neanche lontanamente pensare di eludere la questione dell’attenta lettura e competente di quelli che per comodità possiamo ancora chiamare film, della decifrazione dei loro messaggi. Non si può smettere all’improvviso di prestare l’attenzione dovuta ai segnali che dai film provengono, specialmente da quei film che puntano a intercettare l’immaginario collettivo su scala globale, ma anche da quei film che passano in sottordine, restano invisibili per ragioni non sempre chiare. Purtroppo, proprio in un contesto di sopravvalutazione delle immagini, il rischio di sottovalutazione del loro impatto diretto, storico, politico e culturale può costituire un limite grave alla capacità di conoscere, capire, difendersi. Anche dalla immagini, a patto però che ci sia a monte una piena consapevolezza. Sono molti gli esempi che si possono citare, a dimostrazione di come il cinema abbia funzionato e talvolta funzioni ancora, di sicuro così è stato in un’epoca in cui era la principale e sicuramente la più potente cassa di risonanza mondiale. Ma poiché del “caso” Bin Laden abbiamo parlato, cerchiamo di attenerci alla più stretta attualità. Chiediamoci anche come mai sia tornato in auge, ma con argomentazioni assai più deboli e preconfezionate, il dibattito sulla guerra che collega la situazione libica persino all’eliminazione del capo conclamato di Al Quaeda. Quand’è che il discorso sulla guerra si trasforma in un paradigma di ragionamento che viola il principio stesso di non contraddizione, proprio come l’abbiamo ereditato oggi? La risposta è: durante la seconda guerra mondiale. O più correttamente con i film di “informazione” o “propaganda” che dir si voglia, del secondo conflitto bellico del Novecento. Quando cioè, tra la metà degli anni Trenta e la metà degli anni Quaranta, la guerra diventa definitivamente un affare cinematografico. Settant’anni fa, prima che nel 1968, con il Vietnam il testimone, in tutti i sensi, passasse alla televisione, una nazione in guerra doveva avere i suoi film, come doveva dotarsi del tradizionale armamentario. Cominciò
Può darsi che ciò che è accaduto nel settembre del
Di cosa parlava esattamente? Della politica dietrologica degli Stati Uniti d’America che, grazie alle manovre oscure e “previdenti” della Cia, riesce a eliminare il capo di un immaginario stato nordafricano, l’Hagreb (che è quasi l’anagramma, nemmeno tanto indecifrabile, di Maghreb, sebbene le caratteristiche dell’area nordafricana del film siano estendibili all’intero Medio Oriente). Quest’azione “preventiva” contribuisce a scatenare definitivamente la reazione dell’implacabile leader del terrorismo islamico, tale Rafeeq, divenuto frattanto sovrano dello stato in questione. Costui, dopo una serie di attentati negli Stati Uniti compiuti dai suoi kamikaze, sembra essere deciso a sferrare il più cruento di tutti: prende di mira la città di New York dove sostiene di aver collocato due bombe atomiche di cui è riuscito ad entrare in possesso.
Eppure, come si diceva, questo film si limita a rielaborare in chiave moderna, in riferimento cioè ai primi anni ’80, dunque all’imminente guerra al terrorismo che ha trovato il nemico numero uno nel leader libico Gheddafi (a proposito di Maghreb o di Hagreb, per dirla con il film), il senso complessivo, le cause e le conseguenze, dell’attacco a Pearl Harbour, evento oramai più mitico che reale. Perciò paradigmatico anche di molti film, bellici e non, realizzati all’indomani del 7 dicembre 1941. Il paradosso nel quale si viene a trovare l’ondata ancora non corposa di film legati, direttamente o indirettamente, ai fatti di New York dell’11 settembre 2001, è che esiste un film vecchio di vent’anni ma più avanzato e spregiudicato nel delinearne il quadro generale, il contesto, gli interessi in campo e i comprimari impegnati nel mortale gioco delle parti (il governo, l’esercito, i network televisivi, i servizi segreti, i trafficanti d’armi, le cellule terroristiche, le politiche energetiche internazionali). Brooks non ha inventato niente. Ha fiutato l’aria che tirava. Probabilmente ha giocato d’anticipo non tanto su ciò che sarebbe accaduto vent’anni dopo (semmai sono stati gli attentatori o i loro mandanti ad aver preso ispirazione dal film), quanto su ciò che l’amministrazione Reagan, grazie alla Cia e alla copertura dei mass media, stava facendo proprio in quegli anni con il colonnello Gheddafi. Servendosi del romanzo di McCarry, l’autore del film si limitava con estrema sagacia a dar corpo al concetto chomskyano di “demonologia americana”. Gli interventi di Chomsky sulle intenzioni degli Stati Uniti di intervenire militarmente contro
La catalogazione a questo punto diventa estremamente semplice. Ci limitiamo a una catalogazione, perché l’analisi di ciascun film comporterebbe un lavoro assai più ampio e comunque avrebbe bisogno di una filmografia più ampia che gli anni e i decenni prossimi provvederanno a infoltire. Possiamo, limitandoci a indicare i nomi dei principali autori statunitensi coinvolti, però già parlare di due macro-categorie: quella dei film che collocano in primo piano i fatti dell’11 settembre (principalmente quelli di Michael Moore e Oliver Stone), e quella dei film che li lasciano sullo sfondo, allusivamente (Sean Penn, Spike Lee). All’interno di questo secondo gruppo alcuni registi fanno riferimento diretto all’11 settembre (Penn e Lee, appunto), altri procedono indirettamente e allusivamente (Martin Scorsese, Clint Eastwood, George Romero, Steven Spielberg), riflettendo piuttosto il clima e lo spirito del dopo-attentato in modo comunque sintomatico. Occorre per tutti indicare un altro criterio di distinzione, che agisce trasversalmente: quelli polemici nei confronti della politica dell’amministrazione americana (Moore, Penn, ma non solo loro) e quelli sostanzialmente favorevoli ma che per ora, prudentemente, glissano sull’argomento, parlano d’altro, scelgono angolazioni meno compromettenti (Stone, Greengass). In futuro – è ragionevole aspettarselo – avremo a che fare con film più espressamente di supporto, che utilizzeranno l’evento in questione per rimettere in gioco a tempo indeterminato i presupposti di una guerra infinita e necessaria, ancorché “sporca”. Come è accaduto con il filone sulla seconda guerra mondiale e in particolare su Pearl Harbour da un lato (emblema del colpo incassato, molto efficace emotivamente, poiché più chiaro è il contenuto sacrificale dell’assunto), e dall’altro sul D-Day o su scenari bellici consimili (emblema invece del colpo restituito, che sviluppa più l’entusiasmo per una vittoria giusta e irrinunciabile). Come si può notare, il futuro nulla di nuovo o di originale ci riserverà. O che si tratti della versione aggiornata della serie Why We Fight o che si scelga l’approccio di Obiettivo mortale. In pratica, un doppio deja-vu. Di cui questo intervento voleva essere una specie di trailer.
(*) Cfr. N. Chomsky, introduzione a Towards A New Cold War - Essays on the Current Crisis and How We Got There, Pantheon, New York 1982, p. 17, ma anche N. Chomsky, The Washington Connection and Third World Fascism – The Political Economy of Human Rights, vol. 1, South End, Boston 1979, pp. 85-87. Abbiamo qui indicato i principali interventi chomskyani che, in ordine di tempo, precedono l’uscita del film di Brooks, sebbene sia l’intero corpus degli scritti politici di Chomsky in modo estremamente documentato, come di consueto, a far luce sulle strategie di guerra preventiva al cosiddetto “terrorismo”, il cui ambito semantico è strettamente legato all’impiego propagandistico veicolato dai media (dis)informati. Questo “terrorismo” perennemente in fieri cui gli Stati Uniti legano la propria politica estera dai tempi, rinnovabili, della Guerra Fredda è oggetto di numerosi studi e interventi chomskyani. Ci limitiamo qui a segnalare, per quel che riguarda l’evoluzione artificiosa della minaccia libica agli Stati Uniti, P. R. Mitchell, John Schoeffel (a cura di), Understanding Power – The Indispensable Chomsky, 2002 [trad. it. Capire il potere, Marco Tropea Editore, Milano 2002, pp. 117-126] e in particolare le note presenti sul sitowww.understandingpower.com, ma soprattutto N. Chomsky, Pirates and Emperors – International Terrorismo in the Real World, South End, Boston 1991 [trad. it. Pirati e imperatori – Reagan, Bush I, Bush II: la guerra infinita al terrorismo, Marco Tropea Editore, Milano 2004, pp. 114-141].
Anton Giulio Mancino (Bari 1968) è ricercatore universitario all’Università di Macerata, dove insegna Produzione e Consumo Cinematografico e Realizzazione di Documentari alla Facoltà di Scienze della Comunicazione. All’Università di Bari insegna Semiologia del Cinema e degli Audiovisivi. Autore dei volumi Angeli selvaggi. Martin Scorsese, Jonathan Demme (1995), Francesco Rosi (con Sandro Zambetti, 1998), John Wayne (1998), Il processo della verità. Le radici del film politico-indiziario italiano (2008), Sergio Rubini 10 (con Fabio Prencipe, 2011) Ha curato Sergio Rubini Intervista (con Fabio Prencipe, 2000), Giancarlo Giannini. Il fascino discreto dell’interprete (con Gianni Volpi, 2002), e numerose voci dell’Enciclopedia del CinemaTreccani e del Dizionario dei registi del cinema mondiale Einaudi. Collabora con il quotidiano «
2 commenti:
Chissà cosa ci propineranno ora con il film su Bin Laden.
Il cinema, la radio e la stampa, come ogni bella invenzione, sono lo strumento per nobili intenti, e per il tornaconto dei potenti .
Il cinema ancora di più perchè il senso che controlla maggiormente il cervello è proprio la vista, l'immagine viene fotografata e rievocata a ogni richiamo, bastano poi poche parole per muovere folle oceaniche nella direzione che si vuole.
Ora l'aspetto questo film, senz'altro ci sarà la scena dei corpi speciali che sugli elicotteri militari si dirigeranno verso il Pakistan, e poi dritti sulla casa di Bin Laden per catturarlo e ucciderlo.
Chissà cosa stava facendo Bin per non essersi accorto del gran trambusto che avanzava verso la sua casa, sono rumorosissimi quei bestioni volanti, forse stava ascoltando musica tramite gli auricolari... Infatti hanno dichiarato che non era armato, però ha opposto resistenza per questo gli hanno sparato... Spero che il film soddisferà questa mia ennesima curiosità... ne dubito!
PS. non arrabbiarTi, sai che con Te mi esprimo liberamente :)
Non puoi proprio fare a meno di penare al peggio! Premesso che il saggio è troppo lungo e che un commento comporta una spendita di tempo, di fatica di comprensione non compatibili con un commento in un blog, devo osservare che il film in questione, già in gestazione, adesso sarà realizzato con una fine compiuta, il terrorista è morto!
Trattandosi di un film, come di consueto la realtà sarà intrecciato con la finzione e il film sarà preceduto dall'espressione "Liberamente ispirato a...". Non può essere diversamente.
Non solo. L'intento dell'Autore è quello di dimostrare, indicando due film specifici ('Perché combattiamo' di Franck Kapra, 'Obbiettivo mortale' di Richard Brooks) che la finzione cinematografica precede e in qualche modo ispira accadimenti simili, quasi che fossero ispirati a quanto i film sviluppano.
In particolare il secondo viene ricollegato ai fatti dell'11 settembre 2001, cioè 23 anni prima.
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