venerdì 1 luglio 2011

INTERCETTAZIONI: MAURO SBAGLIA

di Bruno Tinti

Sarà perché ho fatto il Magistrato per più di 40 anni e sono diventato giornalista da poco. Ma a me l’idea che qualcuno mi dica cosa posso fare e cosa no proprio mi sta stretta. Per questo, quando ho cominciato questo nuovo mestiere, mi sono trovato subito bene: lavoravo con gente che scriveva e pubblicava quello che pensava; e, se fosse arrivata una legge di B&C fatta per impedirlo, l’avrebbero ignorata.

D’altra parte i rischi sono pochi: un processo, un ricorso alla Corte Costituzionale, un altro alla Corte Internazionale dei Diritti dell’Uomo; non ci potrebbe succedere niente di più che spendere un po’ di soldi. E quelli ce li danno i nostri lettori (non la Presidenza del Consiglio).

Così, quando – nell’agosto del 2010 – ho letto l’ennesimo emendamento governativo alla legge sulle intercettazioni, frutto del “dialogo costruttivo per riforme condivise” (l’opposizione sempre vigile è: tutta contenta per aver ispirato “significativi miglioramenti per una riduzione del danno”), mi sono arrabbiato quello che bastava.

Poi la cosa è peggiorata quando ho scoperto (nel corso di un convegno cui partecipava anche il vertice della Federazione della Stampa) che avevamo una categoria di giornalisti pronti a vendersi per un piatto di lenticchie: rivendicavano a loro merito l’emendamento!

Diceva dunque questa schifezza che le esigenze della privacy, dell’informazione e dell’indagine penale sarebbero state contemperate da un’udienza filtro. Il PM avrebbe portato al giudice tutte le conversazioni intercettate; il giudice avrebbe fissato un’udienza cui avrebbero partecipato pm e avvocati; tutti avrebbero ascoltato le telefonate e poi il giudice avrebbe deciso: queste servono per fare il processo e queste no. Quelle che servono sarebbero state pubblicabili, una volta caduto il segreto di indagine (proprio come avviene adesso); quelle che non servono avrebbero dovuto essere distrutte e se qualcuno le avesse pubblicate sarebbe finito in prigione: pena massima 6 anni.

Mi stupì poco che i politici del Pd e dell’Udc si fossero associati a B&C nella straordinaria teoria per cui si possono pubblicare solo le informazioni penalmente rilevanti; e che ogni altra informazione non debba essere conosciuta dai cittadini: più o meno tutti i politici temono lo sputtanamento. Ma che i giornalisti accettassero che le uniche notizie pubblicabili fossero quelle che il giudice decideva che potevano essere pubblicate, questo mi indignava; e mi indigna. Perché oggi questo sistema è rivendicato da Ezio Mauro (Repubblica TV) che anzi si attribuisce il merito di averlo inventato.

Come ho detto che i politici non siano preoccupati della loro faccia non può stupire nessuno: si lamentano dell’uso strumentale dell’indagine penale e poi consegnano al giudice il potere di decidere quello che deve o non deve essere pubblicato. Ma che, come dice Ezio Mauro, i giornalisti non possano assumersi la responsabilità di decidere cosa pubblicare e cosa no e che è bene che lo decida il giudice, mi lascia allibito.

A quando le veline del Minculpop?

E poi: ma non ci si rende conto che, in questo modo, si è deciso quali debbono essere i confini dell’informazione?

Si può conoscere solo quello che attiene alle vicende penali; tutto il resto i cittadini lo ignoreranno per sempre.

Se un onorevole si fa di coca (niente processo, uso personale), se un altro va a puttane (ma si fa paladino della tutela della famiglia), se un altro è carico di debiti perché gioca tutte le sere al casinò; bene, ai cittadini non deve importare nulla: privacy. Niente sputtanamento.

E soprattutto rielezione assicurata.

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