mercoledì 20 luglio 2011

La trattativa del silenzio

di Luca Tescaroli

Per molto tempo gelosamente custodita dagli uomini delle istituzioni che ne erano stati parte attiva o che ne erano venuti a conoscenza. Ne parlò per primo il collaboratore di giustizia Giovanni Brusca, dopo il suo arresto. Un coraggioso giornalista, Francesco Viviano la rese di pubblico dominio, qualche anno dopo. È questa la genesi conoscitiva della trattativa – rectius delle trattative – che Salvatore Riina e i suoi portarono avanti durante la preparazione degli eccidi di Capaci e di via Mariano D’Amelio e, poi, nel corso della stagione delle bombe nel continente del 1993. Si inserì in una stagione stragista che condizionò la politica legislativa delle compagini governative e che contribuì a determinare nuovi assetti di potere. Con il collega Antonino Di Matteo, negli uffici della Procura della Repubblica di Caltanissetta, abbiamo dedicato molte energie professionali per ricostruire le relazioni dei vertici di Cosa Nostra con uomini dello Stato. Ci colpì su tutto il fatto che, mentre molti nelle istituzioni, e noi fra questi, stavano cercando di fare del loro meglio per dare un volto ai responsabili delle stragi, correlativamente altri uomini dello Stato non hanno esitato ad avvicinare quegli stessi mafiosi che avevano voluto la morte di Borsellino, di Falcone e dei loro agenti di scorta, in nome della ragion di stato.

IL PUNTO nevralgico era capire come potesse esservi stata una convergenza di interessi tra esponenti delle istituzioni e boss mafiosi del calibro di Riina e Provenzano al punto da dialogare a distanza tramite intermediari e come questo ibrido connubio si potesse correlare con l’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino. Se piuttosto evidente è stata la spinta ad agire di Cosa Nostra, più difficile da decifrare risulta quella di Paolo Bellini – che interagì direttamente con il mafioso di Altofonte Antonino Gioé, trovato morto nel carcere di Rebibbia il 29 luglio del 1993, il giorno dopo le stragi di Milano e Roma – e degli ufficiali del Ros – che iniziarono a dialogare con Vito Ciancimino, quale interfaccia dei capi del sodalizio mafioso – e, soprattutto, individuare i terminali sul versante istituzionale e comprendere se nel corso del tempo fossero mutati. Fra le altre formulammo l’ipotesi investigativa che l’urgenza di eliminare Borsellino fosse dovuta alla sua contrarietà alla trattativa, una volta venutone a conoscenza.

Era il settembre del 1998 e con il collega Di Matteo mi trovavo nel carcere di Pagliarelli, quando Giovanni Brusca indicò, in termini invero incerti, l’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino quale terminale della trattativa. Ne discutemmo a lungo, dopo l’interrogatorio, a cena e la nostra riflessione si soffermò su un dato curioso, vale a dire il contenuto di una circolare diramata alle prefetture, con la quale, ancor prima della strage di Capaci, si segnalava il rischio di attentati. Dunque, in seno alle istituzioni, qualcuno sin da allora sapeva molte cose. Bisognava capire quale fosse stata la reale fonte di conoscenza che aveva indotto a segnalare il rischio. Riuscimmo a provare, attraverso i processi celebrati, che i vertici dell’organizzazione mafiosa ricevettero un segnale istituzionale che, nella loro prospettiva, suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea a raggiungere l’obiettivo di aprire nuovi canali relazionali, capaci di individuare nuovi referenti istituzionali.

MENTRE ricorre il diciannovesimo anniversario della strage di via Mariano D’Amelio e gli organi di informazione hanno diffuso la notizia degli esiti delle nuove indagini su tale strage, curate da valorosi magistrati della procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari, che ha condotto a sollecitare la revisione di sette condanne di mafiosi ritenuti in passato responsabili per quel delitto, si ripropone l’attenzione sulla trattativa, che continua a generare preoccupazione e timori all’interno dei palazzi del potere. Le nuove investigazioni avrebbero avvalorato la convinzione che l’accelerazione dell’uccisione di Borsellino fu dovuta alla sua opposizione alla trattativa. In epoca recente, i singolari silenzi di uomini dello Stato sono stati rotti. Liliana Ferraro ha ricordato di aver informato, all’aeroporto di Bari, Paolo Borsellino dei contatti instaurati con Vito Ciancimino da parte del Ros e della ricerca da parte di esponenti di tale struttura di una sponda politica. Forse quella sponda è stata trovata, in un primo momento, nella classe politica di governo ormai morente, che temeva di subire nuovi lutti e aveva l’esigenza di proteggersi. Non si dimentichi che, dopo Salvo Lima, era stata messa in cantiere l’uccisione di Calogero Mannino, di Sebastiano Purpura, di Claudio Martelli, di Salvo Andò e che i vertici mafiosi avevano in animo di colpire Giulio Andreotti. Vi sono, però, dei dati di fatto sui quali si deve riflettere. Paolo Borsellino, pur avendo manifestato la volontà di rendere dichiarazioni alla Procura di Caltanissetta, dopo la strage di Capaci, non venne sentito prima di essere assassinato. È vero che mafiosi divenuti collaboratori di giustizia, Giovanni Brusca e Salvatore Cancemi, che hanno indicato i terminali della trattativa, hanno riferito le loro verità a distanza di tempo, ma gli uomini dello Stato, che avrebbero dovuto prodigarsi per annientare i mafiosi, hanno mostrato singolari silenzi ancor più duraturi, che hanno fatto seguito alle dichiarazioni di Massimo Ciancimino; taluno manifesta amnesie non ancora rimosse, che non possono considerarsi prive di valore. Lo stragismo marcato Cosa Nostra si arrestò all’esordio di nuove forze politiche.

Nonostante tutto la vicenda della trattativa, a distanza di quasi cinque lustri, rimane una delle vicende più opache che ha attraversato i rapporti tra mafia e antimafia.

Nessun commento: