sabato 2 luglio 2011

Tav, democrazia del manganello

di Pierfranco Pellizzetti

In Val di Susa il ministro degli Interni Roberto Maroni può inalberare la grinta da duro inflessibile che non assume quando sta sull’attenti davanti a Umberto Bossi. Anche perché ha la ghiotta occasione di prendersela con perdenti; vista la tesi strombazzata, diventata pensiero pensabile corrente, che la scelta di realizzare la Tav risponde a indifferibili esigenze di progresso, contro cui devono infrangersi le resistenze retrograde dei valligiani. Rappresentazione della realtà ampiamente e opportunamente smentita proprio su queste pagine.

Al riguardo – però – ci sono ancora due aspetti che meritano di essere affrontati: perché gli esperti di logistica ritengano “inutile” tale intervento infrastrutturale, un po’ come tutte le Grandi Opere di questo tipo che l’informazione mainstream certifica “indispensabili”; per quale ragione al di qua del Frejus si è giunti a una situazione pre-rivoluzionaria, mentre al di là – nel versante francese – medesime scelte si sono affermate nel sostanziale consenso delle popolazioni interessate.

Procediamo con ordine. Per quanto attiene agli interventi infrastrutturali risulta rimosso un aspetto decisivo: il cosiddetto time-to-make; ossia la variabile tempo. Per la Tav almeno una quindicina di anni (e nessuno può prevedere la situazione che avremo al momento della messa in funzione). Sicché sarebbero infinitamente più urgenti e utili investimenti meno costosi e invasivi, ma a effetto immediato.

PER DIRE, il raddoppio delle linee ferroviarie nel nodo di Novara sbloccherebbe subito l’ingolfo trasportistico del Nord-Ovest, senza aspettare le calende greche nella Val di Susa. Insomma, gli unici davvero interessati a tale realizzazione sono i progettisti e chi la dovrà realizzare (oltre che una serie di ragioni inconfessabili, che determinano il singolare effetto per cui costruire tali infrastrutture sul nostro territorio nazionale viene a costare allo Stato – dunque a tutti noi – all’incirca cinque volte di più che negli altri Paesi europei).

Ancora più importante l’altro aspetto di cui si diceva, con evidenti ricadute sulla stessa qualità democratica nazionale: l’opposta reazione nel lionese rispetto a quella piemontese. Il motivo è semplice. In Francia operano da tempo strumenti di consultazione popolare (débat public) che producono trasparenza e coinvolgimento deliberativo in materia di scelte ad alti effetti economico-sociali come ambientali. Si chiamano VAI (valutazione dell’impatto ambientale) e VAS (valutazione strategica); in altre parole, procedure previste dalla legge in cui le popolazioni possono esprimere un giudizio definitivo sull’opera prevista. Compresa “l’opzione zero”, ossia il rifiuto di autorizzarne la realizzazione.

Dal 2001 l’Unione europea ha promulgato una direttiva che imponeva agli Stati membri la recezione della VAS nelle normative nazionali, a partire dal 21 luglio 2004. Ci sono stati governi più diligenti e altri meno. In Italia questo è avvenuto con quello Prodi nel 2008. Il problema – però – è che tali normative da noi restano largamente disattese a livello regionale.

Certo in Val di Susa, dove la corretta applicazione di processi deliberativi avrebbe eliminato la possibilità di “conflitti per errore” e ridotto la percezione di scelte calate dall’alto sulla pelle dei residenti.

IL FATTO È CHE – nonostante tutto – in Francia i cittadini sono ancora considerati tali, mentre in Italia li si tratta da “popolo bue”.

Appunto, una questione di qualità democratica, che viene aggirata con il manganello fisico e – soprattutto – brandendo quello virtuale. L’ennesima creazione di un “regno del falso” dove i lineamenti della realtà reale non sono più percepibili.

Un’opera di rimozione manipolatoria a supporto di pratiche repressive che scopriamo al lavoro oggi in Val di Susa come, dieci anni fa, lavorò nel suo pessimo meglio nei giorni terribili del G8 genovese, quando si manganellarono le suore e gli studenti pacifisti e ci raccontarono che si trattava di black bloc.

Nessun commento: