Il partito che per quindici anni si è chiamato Forza Italia e ora si chiama Pdl nasce non solo come contenitore dei voti cattolici e socialisti. Si è proposto, sin dalla vera fondazione - il discorso della «discesa in campo» di Berlusconi -, come una forza di opposizione alla prospettiva di un Paese trasformato «in una piazza urlante, che grida, che inveisce, che condanna». Il centrodestra nasce cioè come difesa della politica dall'ingerenza della magistratura. Un obiettivo condivisibile, se non fosse stato sin dall'inizio viziato anch'esso dal conflitto tra il bene pubblico e gli interessi privati del leader, e di uomini che hanno guardato al suo partito come a un ombrello dai guai giudiziari. Garantismo e impunità sono separati da un confine ben preciso. Le vicende parlamentari di queste settimane l'hanno ampiamente oltrepassato. E il Popolo della libertà non appare più come un argine contro il dilagare delle Procure (cui in effetti accade di uscire dall'alveo), ma come il manto della Madonna della misericordia degli affreschi medievali, sotto cui corrono a ripararsi anche sedicenti perseguitati e autentici malandrini.
Le sentenze spettano solo alla magistratura. Non ai giornali. Ma neppure al Parlamento. Il Parlamento è chiamato a escludere che un eletto di cui si chiede l'arresto sia vittima di una persecuzione; o a dare una valutazione politica sull'opportunità che un ministro di un dicastero importante resti al suo posto, nonostante sia indagato per mafia. Il paragone con gli anni tra il '92 e il '94 non regge. I casi di Papa, di Milanese, di Romano non sono storie di ingranaggi della macchina del finanziamento illecito ai partiti: una macchina perversa, che però implicava una responsabilità collettiva, di sistema. Qui siamo di fronte a parlamentari accusati di ricevere regali costosi, auto di lusso, yacht in cambio di informazioni su inchieste giudiziarie o posti nei consigli d'amministrazione di aziende pubbliche; e a un ministro su cui incombono accuse che potrebbero rivelarsi anche più gravi di quelle che hanno condotto in carcere il suo ex compagno di partito Totò Cuffaro. Il garantismo impone di considerarli innocenti sino alla sentenza definitiva; l'opportunità politica e il principio di uguaglianza di fronte alla legge consigliano invece un passo indietro, sollecitato in passato dallo stesso presidente della Repubblica, nel caso infelice di Brancher, ministro per poche ore. Qui invece siamo al paradosso per cui Tremonti finisce imputato nel suo stesso partito non per avere mal riposto la fiducia nell'ex braccio destro, ma per non aver contribuito a «salvarlo».
L'opposizione ha la credibilità morale per condurre questa battaglia in nome dell'intero Paese? La risposta è no. Il caso Penati è gravissimo, e finora non sono venute risposte convincenti né dall'interessato né dai vertici del Partito democratico. E, quando fu chiesto l'arresto del senatore Pd Tedesco, nel voto segreto prevalsero le ragioni dell'impunità. È l'opinione pubblica, è l'intera classe politica che deve porsi la questione. Costruire un sistema giudiziario equo ed efficiente, che non punisca con la carcerazione preventiva - tutti i cittadini, non solo i parlamentari - ma accerti le responsabilità, è un'urgenza cui nessuno può sottrarsi. A maggior ragione i moderati e i liberali cui tocca ora chiudere al più presto questa stagione, e ricostruire su basi più solide quell'area della legalità e del merito che mai come oggi manca al Paese.
Aldo Cazzullo
29 settembre 2011
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