sabato 17 dicembre 2011

Partiti e riforme L'ultima speranza




Alfano, Bersani e Casini sono l'acronimo della «maggioranza», l'Abc della politica nell'era dei tecnici, e solo trovando un'intesa sulle riforme istituzionali segneranno il riscatto dei partiti.
Perciò i leader di Pdl, Pd e Terzo polo hanno intensificato i loro contatti, e con ogni probabilità si vedranno la prossima settimana: devono iniziare a discutere su un «progetto quadro» per una complessiva ristrutturazione del sistema, che dalla riforma del bicameralismo e dei regolamenti parlamentari arrivi fino al varo di una nuova legge elettorale. Solo così le forze politiche potranno tornare a legittimarsi agli occhi della pubblica opinione, altrimenti - come sostiene Bersani - «sarebbe difficile per i cittadini capire che i sacrifici producono cambiamenti». E per i partiti (tutti) sarebbe il game over.

Lo schema è chiaro al nuovo acronimo della politica, persino il percorso è per certi versi delineato. Il Senato dovrebbe occuparsi inizialmente della riforma delle Camere e della riduzione del numero dei parlamentari, mentre Montecitorio dovrebbe lavorare sulla revisione dei regolamenti. Della legge elettorale si discuterebbe solo dopo il verdetto della Corte Costituzionale sui referendum, sebbene - al pari di Bersani e Casini - anche Berlusconi sia ormai convinto che «la Consulta li boccerà». Il patto di «maggioranza» sulla revisione del Bicameralismo garantirebbe la blindatura della riforma, perché l'approvazione con i due terzi dei voti in Parlamento eviterebbe anche i referendum.
Ma serve un'intesa, serve che dalle parole si passi agli atti, così da sconfessare la tesi del «noi e voi» che fino a ieri Monti aveva applicato nei confronti dei partiti, e che alla lunga ha provocato una reazione unanime della «maggioranza». Dopo due settimane di passione, iniziate con la querelle sul taglio degli stipendi dei parlamentari e conclusa con la polemica sulle mancate liberalizzazioni, le forze politiche si sono ribellate all'andazzo. Dal Pdl al Pd, passando per il Terzo polo, tutti hanno puntato l'indice contro quella norma che era stata inserita nel decreto economico sulla decurtazione degli emolumenti di deputati e senatori. «Sapevano che era una misura inammissibile, che non era prerogativa del governo presentarla, ma l'hanno lasciata apposta», diceva ieri il democratico Gentiloni.

Il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Catricalà ha provato a derubricare l'incidente, riconoscendo che si è trattato di una «stupidaggine». E sarà pur vero che inizialmente quella parte del decreto era stata scritta in modo differente, che sarebbe stato il ministro Patroni Griffi a modificarla. Ma a stupire tutta la «maggioranza» è stato il fatto che il Quirinale - sempre rigoroso sui testi legislativi - non è intervenuto subito per far cancellare quella misura prima che approdasse in Parlamento. «Non se ne saranno accorti», ha commentato prudente il centrista Rao, mentre l'evento ha indotto l'ex titolare della Difesa La Russa a gridare al «miracolo», ricordando come «si faticava ai nostri tempi». Sta di fatto che la norma, poi cambiata, ha suscitato indignazione nel Palazzo, non sul merito ma per il metodo. Si è trattato, a detta del leader radicale Pannella, di un «attacco al parlamentarismo, senza che si sia voluto sciogliere il nodo del finanziamento pubblico ai partiti».
L'idea di dover appoggiare un governo che con la sua mossa aveva vellicato le pulsioni dell'anti-politica non è andata giù ad Alfano, Bersani e Casini. E quando è scoppiata la polemica sulle mancate liberalizzazioni, è partita la controffensiva. Il capogruppo del Pd, Franceschini, è andato da Catricalà per avvisarlo che la misura era colma, «perché non è vera questa storia che ci saremmo opposti noi. Non è stato il Parlamento a bloccare le liberalizzazioni delle autostrade, quella parte è stata depennata con la biro del ministro Passera». Ecco cosa ha spinto l'esponente democratico a chiedere a Monti di non distinguere più tra «noi e voi», come se le cose buone fossero quelle del governo, mentre quelle cattive venissero dal sacco della politica. E Bersani, prima di intervenire in Aula, si è levato un sassolino dalla scarpa con il premier: era a lui che alludeva, infatti, quando ha definito «barocchi» gli accordi sul patto fiscale siglati in Europa che «non rassicurano i mercati».
L'umore era simile a quello di Alfano e Casini, che incontrando il capo del governo a Montecitorio lo hanno esortato a migliorare le relazioni preventive sui provvedimenti con le forze di «maggioranza». E Monti deve aver inteso il messaggio se ha dedicato buona parte del suo intervento per ringraziare del «lavoro prezioso» i gruppi parlamentari ed avvisarli che le liberalizzazioni le «faremo insieme». Il punto è che i politici sapevano - dando la fiducia ai tecnici - che avrebbero dovuto cantare e portare la croce, per espiare colpe ed errori del passato. Epperò non erano nè sono disposti a farsi dileggiare e delegittimare.

Toccherà all'acronimo della nuova maggioranza lavorare all'intesa per il riscatto. Certo non sarà facile superare le resistenze trasversali di chi - al Senato - è contrario a cambiare il sistema del bicameralismo perfetto. Così come non sarà facile trovare un accordo sulla nuova legge elettorale. Perciò Alfano, Bersani e Casini sono pronti ad incontrarsi per tentare una mediazione che al dunque porti al tavolo anche la Lega e l'Idv. Serve un compromesso, e serve che dalle parole si passi agli atti parlamentari. È l'abc della politica.
Francesco Verderami
17 dicembre 2011

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