di Marco Travaglio
La ministra della Giustizia Paola Severino era partita bene: aveva
rimosso da capo dell’ufficio legislativo la signora Augusta Iannini in Vespa, una sorta di Gromyko in
gonnella all’italiana essendo passata indenne da Castelli a Mastella, da Al
Fano a Palma, maneggiando alcune fra le più
invereconde leggi porcata della storia del diritto e anche del rovescio; e aveva pure messo alla porta quella
squisita personcina di Arcibaldo Miller, il magistrato che capeggiava
gl’ispettori, perseguitando colleghi perbene anziché ispezionare se stesso.
Ora però la Guardasigilli cade, anzi crolla sul solito problema
del sovraffollamento delle carceri, escogitando “soluzioni” fra il demenziale e
il tragicomico.
Prima la solita pantomima del braccialetto
elettronico, subito accantonata fra le risate generali. E ora l’ennesimo indulto mascherato per aggirare la Costituzione che impone, per i provvedimenti di
clemenza, la maggioranza dei due terzi: una trovata che riprende, peggiorandolo,
l’indultino di Al Fano, che l’anno scorso consentì ai circa
4 mila detenuti con residuo pena fino a 12
mesi (fuorché per delitti particolarmente efferati) di uscire dal
carcere per gli arresti domiciliari. Ora
il tetto dei 12 mesi sale a 18 e così, mandando a casa anzitempo altri
3500 carcerati, si spera di alleviare un po’ la pressione nei penitenziari,
imbottiti di 68 mila detenuti su 45 mila posti-cella.
Inoltre la ministra pensa di trattenere nelle camere di
sicurezza delle questure, senza passare per il carcere, i 21-22 mila detenuti in custodia cautelare che attendono il processo per
direttissima. Così il congestionamento si trasferirà dalle carceri alle
questure, dove già non si sa dove mettere la gente e soprattutto come gestirla,
visti i vuoti di organico e la penuria di mezzi (mancano persino i soldi per la
benzina e la riparazione delle volanti).
È la solita politica all’italiana che, non potendo o volendo
risolvere i problemi, li sposta nello spazio o nel tempo, per rinviarne sine
die la soluzione, possibilmente accollandola a chi verrà dopo.
Anche in tema di carceri, il governo tecnico manifesta la più
sconcertante continuità con quelli politici che l’hanno preceduto. Nella Prima
e nella Seconda Repubblica.
Seguita cioè a muoversi come se le carceri scoppiassero per i
troppi detenuti, anziché per i troppi delinquenti e i pochi posti-cella: tutti
gli altri paesi europei hanno percentuali di carcerati analoghe alla nostra, e
non conoscono fenomeni come la mafia, la camorra e la ‘ndrangheta (non
conoscono nemmeno una corruzione e un’evasione fiscale di massa come le nostre,
ma queste sul sovraffollamento non incidono, visto che nelle nostre carceri non
c’è un evasore e i tangentari si contano sulle dita di un monco).
Dunque si continua a
non costruire nuove carceri, a non combattere con misure preventive i
fenomeni criminali dilaganti, a non depenalizzare reati inutili e a non
cancellare le norme – su droghe, immigrati, microcriminalità e recidiva (la
folle ex-Cirielli) – che negli ultimi anni hanno moltiplicato inutilmente la media
dei detenuti. Poi ogni tanto si scopre che il sistema produce un numero di
reclusi insostenibile dalle strutture esistenti e si adotta la “soluzione
scolastica” alla Mastella: chi disturba, fuori! Non potendo fortunatamente
ricorrere all’ennesima amnistia, visto che fra poco si vota, ecco i surrogati e
i pannicelli caldi: si svuota il mare col cucchiaino salvo ripiombare, fra
qualche mese, nell’eterna “emergenza”. Già oggi il condannato, per scontare la
pena in carcere, deve avere una condanna superiore ai 3 anni; che diventano
addirittura 6 se ha commesso il delitto prima dell’indulto di 3 anni del 2006;
con l’indultino Al Fano, per finire dentro per un delitto di 5 anni o più fa,
la pena doveva essere di almeno 7 anni; e ora, con l’indulticchio Severino,
anzi Morbidino, la soglia sale oltre i 7 e mezzo. Se sentite ancora un ministro
invocare la “certezza della pena”, prendetelo a ceffoni. Tanto, mal che vi
vada, finite carcerati a casa vostra.
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