di Marco Biraghi*
Già lo si è detto: l’architettura
è un fatto complesso. Le sue implicazioni sono innanzitutto finanziarie, impegnando di sovente
ingenti capitali economici. Ma sono anche politiche
e sociali, coinvolgendo la sfera del “pubblico”, tanto sul versante della sua
amministrazione quanto su quello della sua fruizione. Non minori sono inoltre i
suoi effetti urbanistici e, almeno
in alcuni casi, il suo impatto sulla
mobilità e sul traffico. L’architettura ha poi evidenti ricadute ambientali, esercitando
inevitabilmente un impatto sul luogo in cui si inserisce, e in un senso più
lato valenze culturali, essendo il prodotto cosciente di una civiltà e di
un’epoca. L’architettura insomma è qualcosa che difficilmente può essere
considerata in modo esclusivo sotto il profilo estetico. Parlare di
architettura fermandosi alla questione del “bello” è certamente limitato. Ma
perché questo sembra giustificare certi architetti a produrre architetture
così brutte?
IL CURRICULUM progettuale di Giancarlo Perotta è degno di tutto rispetto.
Per essere un architetto italiano operante tra gli anni ottanta e oggi
(un’epoca certo non facile per l’architettura italiana, stritolata nella
molteplice morsa di una situazione economica endemicamente critica, di una
committenza pubblica o privata latitante o poco efficiente, di un sistema
concorsuale spesso senza esiti, e della concorrenza “sleale” dei colleghi
stranieri) Perotta ha costruito
decisamente parecchio.
Tuttavia, un sinistro filo rosso unisce tutte le sue architetture:
dai due grattacieli per uffici delle Ferrovie dello Stato alla Stazione di
Porta Garibaldi (con Laura Lazzari) alla Stazione FN Milano Bovisa, passando
per numerosi interventi residenziali e complessi ospedalieri, fino al recente
progetto sull’area ex Enel, di fronte al Cimitero Monumentale, nell’ambito del
Programma integrato di intervento di Porta Volta, il tratto che le accomuna è una singolare bruttezza: una bruttezza che non ha nulla a che spartire con
quanto offre al giorno d’oggi nel campo dell’architettura contemporanea una
città come Milano; una bruttezza che varca la soglia di guardia e che
(purtroppo) non passa inosservata. Una bruttezza tale – per intendersi – da
costringere i nuovi proprietari dei grattacieli di Porta Garibaldi ad
affrontare un costoso restyling pur di cancellarne la pietosa configurazione
originale. Una bruttezza tale da rendere la
prospettiva della realizzazione del progetto sull’area ex Enel, con le sue
sgraziate volumetrie, le sue soluzioni e materiali sbagliati al posto
sbagliato, assolutamente agghiacciante.
Perché un architetto che produce architetture
così brutte ha tanta fortuna? Un simile quesito va necessariamente
incrociato con quello posto in precedenza: perché certi architetti sembrano
giustificati a produrre architetture così brutte?
IN ENTRAMBI i casi risulta evidente come per
architetti del genere il problema estetico non è minimamente importante, al
punto da poterne fare l’ultimo dei loro problemi. E non certo perché
l’architettura – per loro – sia “qualcosa che difficilmente può essere
considerata in modo esclusivo sotto il profilo estetico”, come affermato più
sopra, bensì per la semplice ragione che la loro architettura non viene
giudicata – da parte di chi la commissiona e l’approva – sulla base di questo
parametro.
Evidentemente c’è in
palio ben altro.
Ma in fondo, che cosa conta davvero la questione estetica in
architettura? Non è forse vero che essa è massimamente relativa e soggettiva?
Certo. Non tuttavia abbastanza da essere completamente indipendente
dall’insieme dei fattori che determinano nel suo complesso un edificio.
L’estetica
dell’architettura non è mai fine a se stessa, è sempre il prodotto del delicato
equilibrio tra tutte le componenti che concorrono all’esistenza di questa. Pertanto, un’estetica particolarmente
“alterata”, particolarmente “squilibrata” – un’estetica particolarmente brutta
– non indica soltanto una mancanza di gusto, o una caduta di “stile”: rivela
senza dubbio un errore. Nel 1895,
Otto Wagner, uno dei più grandi
architetti degli ultimi due secoli, scriveva: “Niente che non sia
funzionale potrà mai essere bello”. Oggi, davanti al progetto sull’area ex ENEL – come
davanti agli altri edifici dell’ineffabile Perotta – anche Wagner
sottoscriverebbe l’affermazione che “niente che sia tanto brutto potrà mai
essere funzionale”.
*Docente di storia dell'Architettura contemporanea
al Politecnico di Milano e autore Einaudi
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