29/7/2009
MARIO VARGAS LLOSA
Alcuni anni fa ho visto a Parigi, alla tv francese, un documentario che mi è rimasto impresso e le cui immagini sono talvolta riportate all’attualità con una forza esplodente dagli eventi quotidiani. Il filmato raccontava i problemi di un liceo della periferia di Parigi in uno di quei quartieri in cui le famiglie francesi povere vivono con gli immigrati di origine sub-sahariana, latino-americani e arabi del Maghreb. Questo istituto d’istruzione secondaria pubblico i cui alunni costituiscono un arcobaleno di razze, lingue, costumi e religioni, era stato scenario di violenze.
Bastonate ai professori, stupri nei bagni e nei corridoi, risse tra bande a colpi di coltello e di spranghe, e, se non ricordo male, persino rivoltellate. Non so se ci fossero stati morti, ma certamente parecchi feriti e la polizia, perquisendo le aule, aveva trovato armi, droghe e alcol. Il documentario non voleva suscitare allarme, al contrario tranquillizzare, mostrando che il peggio era ormai passato e che, con la buona volontà di autorità, insegnanti, genitori e alunni, le acque si stavano calmando. Con evidente soddisfazione, per esempio, il preside faceva notare che, grazie al metal detector appena installato e sotto il quale gli studenti dovevano passare per entrare a scuola, si potevano confiscare i pugni di ferro, i coltelli e le altre armi da punta e da taglio. E, così, i fatti di sangue avevano avuto una drastica riduzione. Si erano approvate disposizioni per fare in modo che sia i professori sia le allieve non si muovessero mai da soli, anche per andare in bagno, ma sempre almeno in due. Al fine di evitare, in questo modo, aggressioni e imboscate. E ancora: la scuola aveva a disposizione permanentemente due psicologi per dare consigli a studenti e studentesse - quasi sempre orfani di almeno un genitore, con alle spalle famiglie devastate dalla disoccupazione, dalla promiscuità, dalla delinquenza e dalla violenza - disadattati o attaccabrighe irriducibili. Ma la cosa che più mi ha impressionato del documentario è stata l’intervista a una docente che faceva, con naturalezza, un’affermazione di questo tipo: «Adesso va tutto bene, ma occorre sapersi giostrare». Spiegava che, per scongiurare le aggressioni e le botte di prima, lei e altri insegnanti s’erano accordati di ritrovarsi, a un’ora stabilita, all’uscita più vicina della metropolitana e di camminare in gruppo sino alla scuola. Così riducevano i rischi d’essere aggrediti dai «voyous». Quella professoressa e i suoi colleghi che, ogni giorno, andavano al lavoro come se andassero all’inferno, s’erano rassegnati. Avevano imparato a sopravvivere e non sembravano neppure immaginare che il mestiere d’insegnare potesse essere qualcosa di diverso da questa loro quotidiana via crucis.
In questi giorni ho finito di leggere uno dei piacevoli e sofistici saggi di Michel Foucault nel quale, con la consueta verve, il filosofo francese sostiene che l’insegnamento, proprio come la sessualità, la psichiatria, la religione, la giustizia e il linguaggio, è sempre stato, nel mondo occidentale, una di quelle «strutture di potere» erette per reprimere e manipolare il corpo sociale grazie a sottili, ma efficaci forme di sottomissione e di alienazione per eternare i privilegi e il controllo del potere da parte dei gruppi sociali dominanti. Bene, se prendiamo in considerazione anche il solo campo dell’insegnamento, notiamo che, a partire dal 1968, l’autorità che castrava gli istinti libertari dei giovani è finita in mille pezzi. A giudicare, però, da quel documentario che avrebbe potuto essere girato in molti altri angoli della Francia e dell’Europa intera, il crollo e il discredito dell’idea stessa di insegnante e di insegnamento - e, in ultima analisi, di qualsiasi forma di autorità - non sembra aver portato alla liberazione creativa dello spirito giovanile, ma, piuttosto, trasformato le scuole così liberate in istituzioni in preda al caos, nel migliore dei casi, e, nel peggiore, in piccole satrapie di bulli e di precoci delinquenti.
È evidente che il Maggio ’68 non mise fine all’«autorità» - che, già da tempo, stava vivendo un processo di generale sfinimento in tutti i settori, dalla politica alla cultura - in particolare nel campo dell’insegnamento. Ma la rivoluzione dei ragazzi-bene, crema delle classi borghesi e privilegiate di Francia, che furono i protagonisti di quel divertente carnevale all’insegna dello slogan «Proibito proibire», ha consegnato al concetto di autorità il suo atto di morte. E dato legittimità e glamour all’idea secondo cui ogni autorità è infida, dannosa, scivolosa e che il più nobile ideale di libertà consiste nel disconoscerla, negarla, distruggerla. Il potere non si sentì minimamente toccato da quest’emblematica arroganza dei giovani ribelli che, senza che la maggior parte di essi lo sapesse, portavano sulle barricate gli ideali iconoclasti di pensatori come Foucault.
Basti ricordare che nelle prime elezioni svoltesi in Francia dopo il Maggio ’68, la destra gollista ottenne una sonora vittoria. Ma l’autorità, nel senso latino di auctoritas, non di potere, bensì, come la definiscono i dizionari, di «prestigio e credito che si riconosce a una persona o a un’istituzione per la sua legittimità o qualità o competenza in una qualche materia», non rialzò la testa. Da allora, in Europa come in buona parte del resto del mondo, praticamente non esistono figure politiche o culturali capaci di esercitare il magistero, nel contempo morale e intellettuale, dell’«autorità» classica che, a livello popolare, era incarnata dai maestri, parola che un tempo aveva un suono così bello perché associata al sapere e all’idealismo. In nessun campo tutto ciò è stato tanto catastrofico per la cultura come nell’insegnamento. Il maestro, spogliato di credibilità e di autorità, trasformato spesso in strumento del potere repressivo, vale a dire del nemico al quale per raggiungere la libertà e la dignità d’uomini bisognava resistere, arrivando, persino, ad abbatterlo, ha perduto la fiducia e il rispetto senza i quali gli era praticamente impossibile adempiere alla sua funzione di educatore, di trasmettitore di valori e di conoscenze. Di più: li ha persi non solo agli occhi dei propri alunni, ma anche a quelli degli stessi genitori e dei filosofi rivoluzionari che, come l’autore di Sorvegliare e punire, identificavano nel maestro uno dei sinistri strumenti di cui - proprio come gli agenti di custodia delle carceri e gli psichiatri dei manicomi - l’establishment si serve per mettere le briglie allo spirito critico e alla sana ribellione di bambini e adolescenti.
Molti maestri, in perfetta buona fede, credettero a questa degradante demonizzazione di se stessi e contribuirono, gettando benzina sul fuoco, ad aggravare la rottura facendo proprie alcune delle più avventate affermazioni dell’ideologia del Maggio ’68 nel settore dell’insegnamento come, per esempio, considerare anormale rimproverare i cattivi studenti, far loro ripetere l’anno e, persino, dare voti e stilare graduatorie tra gli allievi in base al rendimento scolastico perché, attraverso tali «distinguo», si diffonderebbero l’infausto concetto di gerarchia, l’egoismo, l’individualismo, la negazione dell’idea che tutti siamo uguali, e il razzismo.
È vero che queste estremizzazioni non sono riuscite a infettare tutti i settori della vita scolastica, ma una delle conseguenze perverse del trionfo delle idee - delle dispute e delle fantasie - del Maggio ’68 è stata la brutale accentuazione della divisione tra classi a partire proprio dalle aule di scuola. L’insegnamento pubblico è stato una delle grandi conquiste della Francia democratica, repubblicana e laica. Nelle sue scuole e nei suoi collegi, di altissimo livello, le ondate di studenti godevano d’una uguaglianza di opportunità che correggeva, in ogni nuova generazione, le asimmetrie e i privilegi legati alla famiglia d’origine o alla classe sociale d’appartenenza, aprendo ai bambini e ai giovani dei settori meno fortunati la strada del progresso, del successo professionale e del potere politico.
L’impoverimento e il disordine sofferti dall’insegnamento pubblico, sia in Francia sia nel resto del mondo, hanno attribuito all’insegnamento privato - al quale, per motivi economici, ha accesso solo un settore sociale minoritario d’alto reddito, meno toccato dalle distruzioni della presunta rivoluzione libertaria - un ruolo preponderante nella formazione dei dirigenti di oggi e di domani nell’ambito della politica, delle professioni e della cultura. Non è mai stato così vero il detto: «Nessuno sa per chi lavora». Credendo di lavorare alla costruzione di un mondo davvero libero, senza repressioni, mancanza di diritti e autoritarismo, i filosofi libertari come Michel Foucault e i suoi incoscienti discepoli hanno, in realtà, lavorato molto alacremente perché, grazie alla grande rivoluzione da loro propiziata nel campo dell’istruzione, i poveri continuassero a essere poveri, i ricchi, ricchi, e gli atavici detentori del potere seguitassero a tenere la frusta nelle loro mani.