venerdì 30 settembre 2011

Prima che sia troppo tardi


PAOLO FLORES D’ARCAIS

Il regime delle cricche e dei prosseneti, delle macerie e delle menzogne, ha deciso l’assalto finale contro le libertà repubblicane e l’abc di ogni convivenza democratica: l’autonomia del giornalismo e della magistratura. Il compagno di merende di Gheddafi ha dettato anche i tempi per il golpe che vuole imporre guinzaglio alle procure e mordacchia all’informazione: non più di quaranta giorni. In un mese o giù di lì – se quanto resta di civile in Italia non saprà reagire con immediata e vincente vitalità – diventerà legge dello Stato la picconata anticostituzionale che renderà l’Italia sempre più assuefatta alla tossina totalitaria. Berlusconi ha dalla sua un Parlamento ormai omertoso (è l’unico aggettivo adeguato, dopo il voto che ha salvato un ministro in odore di mafia), e l’assuefazione, appunto. Dell’opinione pubblica e delle cariche istituzionali che dovrebbero, in una liberaldemocrazia, “fare equilibrio”.

Infatti, solo l’impegno eccezionale e tuttavia inesausto, e soprattutto congiunto e intransigente, dei cittadini nelle piazze e sul web, delle testate giornalistiche refrattarie o alla corriva “equidistanza” che manda il regime in brodo di giuggiole, delle più alte istituzioni di garanzia – Presidenza della Repubblica e Presidenza della Camera – può fermare uno sfregio che ci piomberebbe nella melma del fascismo soft.

E invece, la gravità del rischio non sembra essere percepita. Al punto che il ministro Nitto Palma, che Berlusconi ha voluto come suo complice alla Giustizia, può spiegare sul Messaggero che la legge contro magistrati e giornalisti dovrebbe essere ancora più dura. E può permettersi ammiccanti riferimenti a immaginarie preoccupazioni del Quirinale per le intercettazioni (non per la cloaca che rivelano: un premier che propizia nomine e appalti miliardari, fino a regalare motovedette armate a Stati esteri, secondo i desiderata di Lavitola e Tarantini, in cambio del procacciamento di prostitute e relativo silenzio o spergiuro) e a un’opposizione che giudicherebbe il suo operato “serio ed equilibrato”.

Opposizione che farebbe bene a riconoscere come imperdonabile errore la proposta di legge sulle intercettazioni avanzata dal governo Prodi tramite il ministro Mastella. Altrimenti la contrarietà alla legge berlusconiana sarà svilita dal tanfo dell’opportunismo.

Il regime putiniano di Arcore punta sulla stanchezza della “guardia” repubblicana: cittadini, giornalismo, cariche istituzionali. Prima che sia troppo tardi, ognuno faccia la sua parte per dimostrare che ha sbagliato i conti.

Il Fatto Quotidiano, 30 settembre 2011

Per B. due terzi di legge ad personam E la Mondadori si regala 164 milioni


Thomas Mackinson

Il ministero del Tesoro rende pubblica una nota che dimostra come la legge che prevede patteggiamenti con il Fisco abbia fatto un bel regalo all'azienda del presidente del Consiglio, ma portato un danno alle casse pubbliche

Dall’Agenzia delle Entrate arrivano una smentita e una raffica di conferme. La prima: è falso che il governo non fa nulla per l’azienda come hanno sostenuto oggi gli imprenditori di Confindustria. E’ vero, invece, che l’azienda in questione è quella del presidente del Consiglio. Oggi l’Agenzia ha fornito alla Commissione finanze del Senato una nota che ilfattoquotidiano.it pubblica in esclusiva sull’adesione delle imprese alla “leggina” varata tra tante polemiche a marzo 2010, quella che permette alle imprese con liti pendenti col Fisco da oltre 10 anni di patteggiare pagando soltanto il 5% del valore del contenzioso. E la nota ha confermato quanto si sospettava: che la Mondadori non affronterà il terzo grado di giudizio e non pagherà i 173 milioni di euro pendenti ma soltanto 8,7 milioni. Le altre 66 società aderenti alla procedura di definizione delle controversie, tutte insieme, non totalizzano oltre 4,3 milioni. Briciole rispetto alla Mondandori che pesando da sola per 2/3 dell’ammontare condonato, fa la parte.

Ma quel documento è anche l’ennesima conferma che tra il ministro Tremonti e Berlusconi è guerra totale e senza elusione di colpi. Non può sfuggire, infatti, la coincidenza temporale tra l’arrivo del documento dell’Agenzia, che dal ministero dell’Economia dipende, e la deflagrazione dello scontro tra ministro e premier. L’interrogazione in questione è rimasta infatti nel cassetto per un anno. Difficile credere che sia un semplice caso, una coincidenza. Molto più verosimile che si tratti di un segnale del ministro, ormai asserragliato dal Pdl, sul quale la maggioranza sta cercando di scaricare le colpe della crisi e dell’incapacità di tamponarla. Sul piatto, in fila, ci sono le tensioni per la manovra d’agosto che ha prodotto mugugni tra tutti i ministri e la manifesta contrarietà di Berlusconi. C’è il braccio di ferro sul nuovo vertice di Bankitalia, in stallo per i contendenti sponsorizzati da uno o dall’altro. C’è un provvedimento per la crescita che non si vede all’orizzonte perché impelagato in questo gioco delle parti. E allora ecco che arrivano quelle due paginette con il timbro delle Ministero che segnano un duro colpo per l’immagine di Berlusconi. Confermano senza più margini di dubbio e con l’imprimatur dell’Agenzia che Berlusconi tramite i fedeli parlamentari con quella leggina si è fatto un regalo personale di 164,3 milioni di euro. E che allo stesso tempo ha procurato un danno alle casse dello Stato pari a 225.840 milioni di euro. Perché a tanto, si legge nel documento, corrisponde il valore delle controversie che non saranno introitate per effetto del colpo di spugna. E che dietro ci possa essere la manina di Tremonti lo sospetta anche chi quella risposta se l’è vista arrivare come un fulmine a ciel sereno. Giuliano Barbolini è il senatore del Pd che ha sollevato per primo la questione presentando all’Agenzia delle Entrate una specifica interrogazione. Nel merito l’esito in realtà era scontato: “Un bel regalo a Berlusconi, un brutto colpo per gli italiani. E’ la riprova che quel provvedimento era una legge ad aziendam, per il 75% è andata a favore di Berlusconi”, incalza l’ex sindaco di Modena. Perfino a lui è sembrata una coincidenza sospetta che l’Agenzia si sia mossa proprio ora. “Ho pensato subito che si potesse trattare di un dispetto, anche perché la prima interrogazione l’ho presentata un anno”, racconta Barbolini. “Era settembre 2010 perché l’emendamento e il provvedimento approvato a luglio davano tempo fino al 29 agosto di quell’anno per la presentazione dell’istanza di accordo transattivo. E io immediatamente dopo ho presentato l’interrogazione per sapere chi aveva aderito e per quali importi. Nessuna risposta e la faccenda è caduta un po’ nel dimenticatoio. Poi a maggio di quest’anno Marina Berlusconi (presidente di Mondadori, ndr) in un’intervista ha sostenuto che molte aziende avrebbero tratto un gran beneficio e ha accusato gli scettici e i polemici dell’opposizione di essere ipocriti. Solleticato da questa uscita sono andato a sollecitare l’Agenzia con una seconda interrogazione per capire chi davvero ci ha guadagnato. Ma niente. L’ultima volta ho presentato una terza istanza a fine luglio. Insomma, dopo un anno esatto e tre interrogazioni la risposta arriva solo ora. Difficile credere che sia un caso l’improvvisa sollecitudine del Ministero rispetto alla reticenza manifestata per 12 mesi”.

La fronda di Pisanu a palazzo Madama Ecco l”ultima minaccia al governo


DAVIDE VECCHI

Da settimane il presidente della commissione parlamentare antimafia sostiene l'ipotesi di un esecutivo di larghe intese condivisa da almeno una decina di senatori. Ora, dopa il salvataggio di Romano, ha accelerato la situazione

Dopo un anno di battaglie sui numeri alla Camera, con compravendita di deputati e il parto dei Responsabili per avere garantita la maggioranza in aula a Montecitorio, il governo potrebbe scivolare nel più austero e apparentemente sicuro Palazzo Madama. Al Senato il Pdl è in fermento. Da settimane ormai Beppe Pisanu è in aperto contrasto con l’esecutivo e i vertici del partito cui è iscritto. Toni polemici sull’operato del Consiglio dei ministri, tanto da spingersi fino a invocare un nuovo governo e soprattutto un “necessario” passo indietro di Silvio Berlusconi. Da due settimane ormai gira tra i banchi dei senatori un documento redatto dal presidente dell’antimafia che invita gli animi cattolici e le voci critiche a unirsi per ridare dignità alla politica e vita all’azione di governo. Pisanu ha sempre smentito. Così come ieri ha smentito di aver incontrato dodici seguaci raccolti e averli riuniti a tavola martedì 20 nella saletta riservata del ristorante La Capricciosa, come riferisce oggi il Corriere della Sera.

Le posizioni espresse di Pisanu sono serpeggiate per settimane sotto traccia, ma quando la Camera ha salvato Saverio Romano, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa, hanno preso forma e voce. E trovato consensi. Tanto che i colonnelli del Pdl si sono sentiti costretti a intervenire per tentare di porre dei paletti alla fronda. La dichiarazione più sibillina è del vicepresidente del gruppo Pdl alla Camera, Osvaldo Napoli. “Noi non crediamo alle parole del collaboratore Lo Verso né quando accusa il ministro Romano, né quando accusa Pisanu ritenendolo il fornitore delle notizie a Cuffaro e Aiello”, un messaggio fin troppo chiaro. Che Napoli definisce ulteriormente: “E cosi come non abbiamo chiesto le dimissioni al ministro Romano, non le chiediamo al presidente della Commissione antimafia anche se quest’ultimo, cosi come dispone la legge, potrebbe essere iscritto nel registro degli indagati per favoreggiamento aggravato a causa di questa accusa”. La dichiarazione suona palesemente come una sorta di minaccia. Ma non sembra al momento aver ottenuto l’esito sperato, perché con il passare delle ore continua a crescere il numero degli scontenti dall’azione politica del governo che condividono le preoccupazioni di Pisanu e, pur di scongiurare il voto anticipato, invitano Berlusconi a inaugurare presto una fase di transizione che gestisca l’emergenza del momento.

In molti rievocano gli anni di Tangentopoli, convinti che sarebbe “un errore chiudersi nel bunker per difendersi dall’assedio quotidiano dei pm”, perché poi “il ciclone giudiziario travolse tutti e tutto comunque”. Ora, riferiscono fonti pidielline, per evitare di “commettere gli stessi sbagli del passato”, sarebbe meglio pensare a una “maggioranza più ampia” che eviti il “burrone delle urne”. Il senatore Giuseppe Saro, tra i più attivi in questi giorni, conferma le “grandi manovre” in corso ma esclude “complotti”, “tradimenti” e “documenti” ai danni del Cavaliere : “Tra i parlamentari del Pdl si sta facendo una riflessione sulla situazione politica. In tanti ritengono che ora sia necessaria una fase di transizione che abbia come protagonista in primis il presidente Berlusconi”. Un periodo di transizione, spiega Saro, “eviterebbe che un casus belli o un’azione esterna possa far precipitare tutto verso delle elezioni anticipate devastanti, innanzitutto per la coalizione attuale e per il fatto che si bloccherebbe il processo di riforme”, assolutamente necessario per uscire dall’impasse attuale. Saro cita Mani Pulite: “Io sono di estrazione socialista, Berlusconi teme di fare la fine di Craxi. Io non voglio certo che faccia la fine di Bettino, ma per evitarlo serve subito una soluzione politica”.

Il senatore avverte: “Bisogna trovare una maggioranza più ampia che possa affrontare la difficile crisi economica e consenta di avviare le riforme costituzionali e la legge elettorale”. I senatori delusi rifiutano l’etichetta di dissidenti e ribelli. Del resto ci sono diverse anime: gli scajoliani Franco Orsi e Gabriele Boscetto, i toscani Paolo Amato e Massimo Baldini, e poi Valter Zanetta e Paolo Scarpa Bonazza Buora.

Saro conferma l’incontro a La Capricciosa con Pisanu e una decina di senatori. Ma assicura: “Non è stata certo una cena di carbonari, non c’è nessun complotto, si ragiona solo sulla necessità di avviare una fase di transizione. Lo dico nella speranza che tutti gli altri parlamentari che fanno queste riflessioni solo in privato escano allo scoperto”. Nessuno, spiegano altri senatori che per ora non vogliono uscire allo scoperto, “vuol tradire Berlusconi, perché tutti gli sono grati, ma per il suo bene è meglio pensare a una soluzione politica diversa ed evitare le urne”. Lamberto Dini ufficialmente non si esprime ma uomini vicini all’ex premier fanno sapere che il presidente della commissione Affari esteri di Palazzo Madama ha partecipato alla cena ma non vuol sentir parlare di complotti e ribelli o di documenti di dissidenti contro Berlusconi. Il senatore, riferiscono le stesse fonti, è stato invitato all’incontro perché i suoi colleghi sapevano che era reduce da un viaggio a New York e volevano conoscere giudizi e prospettive sull’Euro e la situazione economica dell’Italia. E per aggiornarlo sulla situazione italiana. In particolare l’intervento di Bagnasco che Pisanu ha detto di condividere come i 12 senatori condividono il suo documento: “Dalla a alla z”.

Da Pisanu a Dini: chi sono i 12 frondisti del Pdl


La fronda che Beppe Pisanu guida al Senato è composta da politici di lungo corso, come Lamberto Dini, e da emeriti sconosciuti come Gabriele Boscetto. Ma c'è anche Massimo Baldini, storico legale di Silvio Berlusconi

Beppe Pisanu. Schivo, riservato, Pisanu ha attraversato indenne Tangentopoli e qualcosa come venti governi. Nato nel 1937 ha fatto il suo primo ingresso a Montecitorio nel 1972 a 35 anni nelle liste della Democrazia Cristiana. Qui è rimasto fino al 1992 ricoprendo numerosi incarichi: sottosegretario di Stato al Tesoro dal 1980 al 1983 nei governi guidati da Arnaldo Forlani, costretto a dimettersi per lo scandalo P2, Giovanni Spadolini e Amintore Fanfani; sottosegretario di Stato alla Difesa dal 1986 al 1990 nei governi Dc-Psi e Pentapartito guidati da Bettino Craxi, Giovanni Goria e Ciriaco De Mita. Con lo scioglimento della Dc, Pisanu nel 1994 entra in Forza Italia. E viene eletto fino al 2001 sempre alla Camera. Nel 1994 è vicecapogruppo degli azzurri, nel 1996 diventa capogruppo e nel 2001 viene nominato ministro senza portafoglio, poi ministro per la verifica del programma nel governo e il 3 luglio 2002 subentra a Claudio Scajola come Ministro dell’Interno, carica che ricopre fino al 2006. La sua permanenza al Viminale è contraddistinta dalla lotta alla nuove Brigate Rosse, dalla caccia e arresto di Bernardo Provenzato e dalla nascita della Consulta islamica per dialogare per la comunità presente nel Paese. Ereditata poi da Giuliano Amato e interrotta invece dal leghista Roberto Maroni. Rieletto nel Pdl nel 2008 viene nominato presidente della Commissione antimafia.

Lamberto Dini. Preferisce definirsi economista, seppur abbia speso la vita nei Palazzi romani. Ma di fatto nel 1979 diventa direttore generale della Banca d’Italia su nomina di Francesco Cossiga, all’epoca presidente del Consiglio. Poi è Carlo Azeglio Ciampi che lo nomina governatore, carica che ricoprirà fino al 1994 quando si dimette per accettare il ministero del Tesoro del primo governo Berlusconi. Nel 1995 diventa presidente del Consiglio dei Ministri fino al 1996 e poi ministro degli Affari Esteri fino al 2001 nel governo Prodi. Nell’Ulivo aveva fatto confluire il suo Rinnovamento italiano. Poi Dini è entrato nella Margherita di Francesco Rutelli, con la quale viene eletto al Senato 2006. Un anno dopo però da vita a un nuovo soggetto politico: i Liberlademocratici che, nel 2008, entrano nel Pdl.

Franco Orsi. Nato nel 1966 a Savona, entra nel movimento giovanile della Democrazia Cristiana e viene eletto al Senato per la prima volta nel 2008 nelle liste del Pdl, dopo tredici anni trascorsi nel consiglio regionale della Liguria prima come consigliere, poi vicepresidente e assessore all’Urbanistica. E’ uno dei giovani senatori che hanno aderito al progetto di rinnovamento di Pisanu.

Paolo Amato. A 16 anni era già iscritto al Partito Repubblicano Italiano e, insieme a Denis Verdini e a Cosimo Ceccuti, ha fatto parte del cenacolo di Giovanni Spadolini. Dal 1996 entra in Forza Italia. Coordinatore cittadino a Firenze, arriva in Senato solamente nel 2006 e poi riconfermato nel 2008.

Massimo Baldini. E’ la vera sorpresa della fronda di Pisanu. Massimo Baldini, infatti, è uno dei legali di fiducia di Silvio Berlusconi. Consigliere comunale, assessore, vicesindaco e sindaco di Viareggio tra il 1970 e il 1994 viene eletto a Palazzo Madama nel 1992 con il Partito Socialista. Poi aderisce a Forza Italia. Vicepresidente della Commissione di Vigilanza Rai, di cui fa ancora oggi parte, Dal 2007 è Presidente Nazionale dei Circoli dell’Opinione e dal 2010 è presidente dell’associazione Cambiare l’Italia.

Giuseppe Saro. Eletto deputato nel 2001 nelle file di Forza Italia, nel 2006 conquista Palazzo Madama con il Movimento per l’Autonomia in Liguria.

Napolitano sulla legge elettorale: “Si è rotto il rapporto di fiducia elettore-eletto”


Il capo dello Stato parla all'università Federico II di Napoli in occasione dei 150 anni dell'Unità e dice: "Non esiste un popolo padano. Stato Lombardo-Veneto? Grottesco"

L’attuale legge, il “porcellum”, ha “rotto il rapporto di fiducia tra elettore ed eletto”. Per questo “serve un nuovo sistema elettorale”. Così il Capo dello Stato Giorgio Napolitano ha commentato il trionfo della raccolta di firme per indire un referendum abrogativo dell’attuale legge elettorale. Parole che, unite a quelle, durissime, contro “il popolo padano” – che, ha ribadito il Presidente, “non esiste” – suonano come un pesante affondo nei confronti del Carroccio.

Perché, visto il successo strepitoso della raccolta firme per abrogare la “legge porcata” scritta da
Roberto Calderoli, il rischio è che adesso la Lega lasci affondare il Pdl, facendo venir meno l’ormai fragilissima maggioranza di governo, in modo da andare ad elezioni subito, e dunque prima che venga attuata una riforma del sistema elettorale. Un pericolo, questo, messo in luce questa mattina anche dal senatore Pd e membro della commissione Affari Cosituzionali, Stefano Ceccanti.

Ma sul “porcellum” le parole di Napolitano sono nette. Nel discorso tenuto alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università Federico II di Napoli il Presidente ha detto: “Non voglio idealizzare certo il sistema delle preferenze che vigeva prima, perché tutti sappiamo quali limiti avesse, ma certo che c’è la necessità di un meccanismo elettorale che faciliti un rapporto di fiducia tra elettori ed eletti”. Poi ha spiegato più nel dettaglio quali sono i limiti dell’attuale sistema: “In passato il maggioritario uninominale creava un vincolo forte tra eletto ed elettore, adesso sembra che la cosa più importante sia mantenere buoni rapporti con chi ti nomina deputato”. Tra le varie pecche il difetto più grave individuato dal Capo dello Stato è quello delle liste bloccate perché “chi viene eletto in Parlamento “non ha più la necessità di mostrare competenza, attività, capacità di rappresentare il suo elettorato per non rischiare, la volta successiva, di non farcela con le preferenze. Ai miei tempi per queste cose si rischiava proprio di non essere rieletti. Oggi mi pare che non sia più così, è più importante avere buoni rapporti con il partito”.

Insomma, una nuova legge elettorale, per Napolitano, ci vuole assolutamente. “Non tocca a me fare nuove leggi”, ha precisato il Presidente, che però ha insistito sulla “facoltà dell’elettore di scegliere il candidato”.

Poi il Presidente ha parlato a lungo, davanti alla platea composta da docenti e da studenti, della situazione politica generale del Paese, e soffermandosi sui recenti e ripetuti proclami di Umberto Bossi – che aveva detto che l’ “alternativa all’Italia che affonda è la Padania– non ha esitato a chiarire: ”
La sovranità appartiene al popolo e non c’è un popolo padano”.

In occasione del 150esimo anniversario dell’Unità, Napolitano ha ripercorso alcune tappe fondamentali della storia del Paese, specie nei suoi passaggi istituzionali fondamentali. Non una lezione di storia, però, ma una riflessione sempre con gli occhi puntati all’oggi. E infatti, se da un lato ha definito “lecita” ogni discussione relativa ad eventuali riforme istituzionali, “purchè se ne discuta a livello parlamentare e con una rappresentanza delle Regioni”, dall’altro ha detto chiaro e tondo che “non c’è una via democratica per la secessione”. E, quindi, se “dalla propaganda, le chiacchiere, lo sventolio di bandiere” si passa a parlare davvero di secessione, ha continuato il Presidente, cambiano radicalmente le cose. Quelle del Carroccio sono “grida che si levano dai prati con scarsa conoscenza della Costituzione”, ed è “grottesco proporre uno stato lombardo-veneto”. Poi ha ricordato: ” Nel ’43-’44 l’appena rinato Stato italiano, di fronte a un tentativo di organizzazione armata separatista, non esitò a intervenire in modo piuttosto pesante con la detenzione di Finocchiaro Aprile (esponente del movimento separatista siciliano, ndr). Non si può cambiare il corso della Storia”.

Il Presidente ha tenuto il discorso all’università dopo essere arrivato nel capoluogo partenopeo in treno. E’ stato accolto, tra gli altri, dal sindaco
Luigi De Magistris, dal presidente della Regione Campania, Stefano Caldoro e da quello del Consiglio regionale, Paolo Romano. In mattinata ha visitato una mostra all’interno del Palazzo reale dedicata al contributo del sud per l’unità del Paese. In piazza del Plebiscito, poco dopo l’ingresso del Capo dello Stato alla mostra, è arrivato un presidio di cittadini che ha mostrato uno striscione con lo slogan: “Traffico rifiuti tossici Nord-Sud. Nessun colpevole, vergogna”. Il riferimento è all’inchiesta Cassiopea – quella che ha ispirato il libro Gomorra – chiusa con molti reati, tra cui l’associazione per delinquere, finiti in prescrizione.

Peggio di B. ci sono solo i suoi pasdaràn


di Flavia Perina

Caro direttore, dice Silvano Moffa che anche Sciascia si sarebbe ribellato ai professionisti dell’antimafia che vorrebbero sfiduciare Romano.

Dice Ignazio La Russa che la Borsa tedesca ha perso il 50 per cento in vent’anni, poi si scopre che è il contrario ma chissenefrega.

Dice Gianfranco Rotondi che Berlusconi è “un santo puttaniere” e che i cattolici del Pdl non sono in imbarazzo perché “è la superiorità dell’Occidente cristiano sul moralismo che misura l'affidabilità di un politico sulla sua condotta privata”.

Dice Antonio Leone che il cardinal Bagnasco parlando di “aria ammorbata da comportamenti licenziosi” non si riferiva a Berlusconi ma ai parlamentari separati, e forse anche ai preti pedofili.

Dice Franco Frattini che Valter Lavitola a Panama non stava con lui, è arrivato per conto suo e si è imbucato alla cena ufficiale prevista dalla missione senza che nessuno se ne accorgesse.

Dice Marcello Veneziani che Berlusconi intercettato gli ricorda Ezra Pound in gabbia nel campo di concentramento americano di Coltano.

Dice Gianni Alemanno “mai più Minetti nei listini regionali” altrimenti “offendiamo il Pdl e Silvio Berlusconi”.

Precisa Roberto Formigoni che la Minetti non l’ha scelta lui perché il listino lo fa il partito.

Specifica l’eurodeputata Lara Comi che lei non è come la Minetti né come “le altre” promosse dal Pdl, va alle feste del premier, ma “ha dieci anni di gavetta politica”.

Replica il capogruppo europeo del Pdl Mauro Mauri che queste sono “dichiarazioni lesive della dignità della persona” che “causano danno al partito e al Paese” perché anche “le altre” sono degnissime persone “e bene ha fatto il partito a scegliere persone provenienti da esperienze differenti che sono il riflesso di una multiforme società civile”.

Potrei andare avanti per cento righe, ma la fotografia di un eventuale futuribile immaginario Pdl senza Berlusconi mi sembra molto chiara già così, e non è un bel vedere.

In molti stanno ragionando sul futuro “partito popolare italiano”, una specie di riedizione democristiana che dovrebbe rimettere insieme i pezzi del centro dopo la caduta del sovrano.

Altri prefigurano la ricostituzione di una destra post-aennina, salvando il salvabile delle filiere dei Colonnelli tritate dal Cav. Poi c’è il solito convitato di pietra, il “partito degli industriali” o dei tecnici, di Montezemolo o della Marcegaglia, che dovrebbe avvalersi di spezzoni di politica raccolti dalle macerie del berlusconismo.

Sono molto scettica. E comincio a pensare addirittura che Berlusconi sia migliore del partito che guida, che i fedelissimi siano più irrecuperabili del loro guru-padrone.

Certo il premier, se fosse al posto degli Scajola o degli Alemanno, dei Formigoni o degli aspiranti neo-dc, non si sarebbe lasciato sfuggire l’attimo: avrebbe messo su una squadretta sul modello Scilipoti e avrebbe giocato la sua partita. Qui, invece, la capacità di rischio e il coraggio sono pari a zero. E fanno un po’ ridere i titoloni dei grandi quotidiani che presentano ogni sussurro come una dissociazione, ogni bisbiglio come uno smarcamento, ogni riunioncina di corrente come una vigilia rivoluzionaria . Il Popolo della libertà senza Berlusconi non è buono a far niente, solo a recitare il rosario del “Mattinale” (il mitico bignamino della maggioranza) nel pastone del Tg1 o nei talk-show. Uno dopo l’altro sono stati illusi di essere i preferiti del sovrano, quelli che avrebbero avuto un ruolo privilegiato nella transizione pilotata verso il nuovo Pdl del 2013. Hanno sfigurato la loro immagine pubblica per questo. E oggi, nel giorno del compleanno del sovrano, scoprono chi conta davvero nell’anticamera del re: Valter Lavitola, che allo scoccare della mezzanotte gli ha fatto il regalo più gradito, un alibi a tutto campo dalle navi a Panama fino alle ragazze di Tarantini. E la promessa di nuove rivelazioni su Fini. Altro che chiacchiere e voti di fiducia.

CORRUZIONE E INTERCETTAZIONE


di Bruno Tinti

Molti anni fa mia figlia tornò da scuola e mi raccontò che un suo compagno le aveva detto che i “negri” non sono umani. Mi disse. “Gli ho detto che è sbagliato perché anche i negri hanno l’anima”.

Ci ho ripensato leggendo l’editoriale di Panebianco sul Corriere del 28 settembre. Ci sono affermazioni che non possono essere contraddette in maniera articolata. Servono poche parole, come fece così bene mia figlia con quel suo compagno.

“L'uso politico delle intercettazioni”. Il favoreggiamento e lo sfruttamento della prostituzione sono reati; come l’accoppiarsi con una prostituta minorenne. Con le intercettazioni si scoprono e si provano; e non diventano reati politici se li commettono il presidente del Consiglio e alcuni amici suoi.

“La fine che hanno fatto la tutela della privacy e la presunzione di non colpevolezza”. Quando finisce il segreto investigativo gli atti processuali e il processo diventano pubblici. I processi segreti sono propri delle dittature, quelli pubblici delle democrazie. La privacy e la presunzione di non colpevolezza non c’entrano niente. Fino alla sentenza definitiva ognuno è processualmente innocente. Nel frattempo i cittadini, nel rispetto della legge, si formano le proprie convinzioni.

“Mani Pulite. La corruzione c'era ed era tanta (ma era ‘di sistema’ e per questo avrebbe richiesto una soluzione politica, non penale)”. La corruzione era ed è un reato. Mettere in prigione corrotti e corruttori riguarda la giustizia; non ammettere tra le proprie file i corrotti e cacciarli quando si scoprono riguarda la politica. Una corruzione di “sistema” è solo una corruzione molto diffusa e richiede uno sforzo maggiore sia alla magistratura che alla politica. La magistratura ha fatto quello che poteva. La politica ha continuato a farsi corrompere e a corrompere.

“L'avviso di garanzia che raggiunse Berlusconi a Napoli nel mezzo di una conferenza internazionale”. Lo sanno pure le pietre che l’avviso fu recapitato a Palazzo Chigi, che Berlusconi fu avvertito per telefono e che fu lui a dire di portarglielo a Napoli.

“Le tante anomalie del rapporto fra magistratura e politica, il grave squilibrio che si è determinato fra democrazia rappresentativa e potere giudiziario”. Non esistono anomalie tra giudice e imputato. L’imputato si difende, mente e scappa; polizia, pm e giudici lo riacchiappano, raccolgono le prove e, se colpevole, lo condannano. Quanto allo squilibrio, in effetti è gravissimo che in una democrazia rappresentativa il popolo sia rappresentato da tanti delinquenti.

“Persino il più ottuso dei cittadini capisce che centomila intercettazioni per una inchiesta sono cose da pazzi”. Il più ottuso dei cittadini sa che non è vero che ci sono state 100.000 intercettazioni. Le persone intercettate erano una quindicina. In effetti parlavano tanto al telefono, di reati per lo più. Quindi 100.000 sono le conversazioni e gli sms, non le intercettazioni.

“Si deve vietare di intercettare, anche in modo indiretto, chi occupa cariche istituzionali”. Totò Riina (intercettato) a onorevole: “"Cicciuzzu beddu, a 'du curnutu ca ti dinunziau ci pinsammu nuautri: carni morta è!" "Grazie Totò, lo sapevo che su di te potevo contare. Adesso vedo che posso fare per il processo di quell'amico tuo".

Che facciamo, tutto archiviato? Omicidio e corruzione compresi?

È l’ora di ricucire l’Italia


Sabato 8 ottobre, a Milano, a partire dalle ore 14:30, Libertà e Giustizia organizza una grande manifestazione nazionale dal titolo “Per ricucire l’Italia”. Coordinati da Luisella Costamagna, si alterneranno sul palco Gustavo Zagrebelsky, Valerio Onida, Salvatore Veca, Carlo Smuraglia, Paul Ginsborg, Marco Revelli, Bruno Tinti, Lorenza Carlassare, Marco Travaglio, il sindaco Giuliano Pisapia e altri. Tutte le informazioni sull’iniziativa e sulle possibili modalità per contribuirvi e sostenerla si trovano sul sitowww.libertaegiustizia.it . Ecco l’appello scritto dal presidente onorario di L&G, Gustavo Zagrebelsky

di Gustavo Zagrebelsky

L’anno dell’anniversario dei 150 anni dell’Unità d’Italia rischia di concludersi così. Così, come? Con una frattura profonda. Sempre più e rapidamente, una parte crescente del popolo italiano si allontana da coloro che, in questo momento, sono chiamati a rappresentarlo e governarlo. I segni del distacco sono inequivocabili, per ora e per fortuna tutti entro i limiti della legalità: elezioni amministrative che premiano candidati subìti dai giri consolidati della politica; referendum vinti, stravinti e da vincere nell’ostilità, nell’indifferenza o nell’ambiguità dei maggiori partiti; movimenti, associazioni, mobilitazioni spontanee espressione di passioni politiche e di esigenze di rinnovamento che chiedono rappresentanza contro l’immobilismo della politica.

IL DILEMMA è se alla frattura debbano subentrare la frustrazione, l’indifferenza, lo sterile dileggio, o l’insofferenza e la reazione violenta, com’è facile che avvenga in assenza di sbocchi; oppure, com’è più difficile ma necessario, se il bisogno di partecipazione e rappresentanza politica riesca a farsi largo nelle strutture sclerotizzate della politica del nostro Paese, bloccato da poteri autoreferenziali la cui ragion d’essere è il potere per il potere, spesso conquistato, mantenuto e accresciuto al limite o oltre il limite della legalità.

Si dice: il Governo ha pur tuttavia la fiducia del Parlamento e questo, intanto, basta ad assicurare la legalità democratica. Ma oggi avvertiamo che c’è una fiducia più profonda che deve essere ripristinata, la fiducia dei cittadini in un Parlamento in cui possano riconoscersi. Un Parlamento che, di fronte a fatti sotto ogni punto di vista ingiustificabili, alla manifesta incapacità di condurre il Paese in spirito di concordia fuori della presente crisi economica e sociale, al discredito dell’Italia presso le altre nazioni, non revoca la fiducia a questo governo, mentre il Paese è in subbuglio e in sofferenza nelle sue parti più deboli, non è forse esso stesso la prova che il rapporto di rappresentanza si è spezzato? Chi ci governa e chi lo sostiene, così sostenendo anche se stesso, vive ormai in un mondo lontano, anzi in un mondo alla rovescia rispetto a quello che dovrebbe rappresentare.

NOI PROVIAMO scandalo per ciò che traspare dalle stanze del governo. Ma non è questo, forse, il peggio. Ci pare anche più gravemente offensivo del comune sentimento del pudore politico un Parlamento che, in maggioranza, continua a sostenerlo, al di là d’ogni dignità personale dei suoi membri che, per “non mollare” – come dicono –, sono disposti ad accecarsi di fronte alla lampante verità dei fatti e, con il voto, a trasformare il vero in falso e il falso in vero, e così non esitano a compromettere nel discredito, oltre a se stessi, anche le istituzioni parlamentari e, con esse, la stessa democrazia. Sono, queste, parole che non avremmo voluto né pensare né dire. Ma non dobbiamo tacerle, consapevoli della gravità di ciò che diciamo. Il nodo da sciogliere per ricomporre la frattura tra il Paese e le sue istituzioni politiche non riguarda solo il Governo e il Presidente del Consiglio, ma anche il Parlamento, che deve essere ciò per cui esiste, il luogo prezioso e insostituibile della rappresentanza. Dov’è la prudenza? In chi assiste passivamente, aspettando chissà quale deus ex machina e assistendo al degrado come se fossimo nella normalità democratica, oppure in chi, a tutti i livelli, nell’esercizio delle proprie funzioni e nell’adempimento delle proprie responsabilità, dentro e fuori le istituzioni, dentro e fuori i partiti, opera nell’unico modo che la democrazia prevede per sciogliere il nodo che la stringe: ridare al più presto la parola ai cittadini, affinché si esprimano in una leale competizione politica.

NON PER realizzare rivincite, ma per guardare più lontano, cioè a un Parlamento della Nazione, capace di discutere e dividersi ma anche di concordare e unirsi al di sopra d’interessi di persone, fazioni, giri di potere. Dunque, prima di tutto, ci si dia un onesto sistema elettorale, diverso da quello attuale, fatto apposta per ingannare gli elettori, facendoli credere sovrani, mentre sono sudditi. Le celebrazioni dei 150 anni di unità hanno visto una straordinaria partecipazione popolare, che certamente ha assunto il significato dell’orgogliosa rivendicazione d’appartenenza a una società che vuole preservare la sua unità e la sua democrazia, secondo la Costituzione. Interrogandoci sui due cardini della vita costituzionale, la libertà e l’uguaglianza, nella nostra scuola di Poppi in Casentino, nel luogo dantesco da cui si è levata 700 anni fa la maledizione contro le corti e i cortigiani che tenevano l’Italia in scacco, nel servaggio, nella viltà e nell’opportunismo, Libertà e Giustizia è stata condotta dalla pesantezza delle cose che avvolgono e paralizzano oggi il nostro Paese a proporsi per il prossimo avvenire una nuova mobilitazione delle proprie forze insieme a quelle di tutti coloro – singole persone, associazioni, movimenti, sindacati, esponenti di partiti – che avvertono la necessità di ri-nobilitare la politica e ristabilire la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e in coloro che le impersonano. Che vogliono cambiare pagina per ricucire il nostro Paese.

Borghezio VS Camilleri: "Parla come un simpatizzante delle BR" (28/02/2011)

Nun ce lassà


di Marco Travaglio

In occasione del suo 75° compleanno, oltre agli auguri più affettuosi e riconoscenti, il Cavalier Patonza ci consentirà di chiedergli una cortesia.

Non è per noi, che fortunatamente viviamo del nostro. È per quelli che si spacciano per “giornalisti di destra”, mentre, molto più modestamente, sono suoi impiegati.
Quattro di loro, sentendosi minacciati in ciò che hanno di più caro – lo stipendio – levano alto e forte su Panorama un accorato appello a una sola voce al padrone: resta con noi Signore la sera (o almeno tutto il resto della giornata).

Comincia Giorgio Mulè, il direttore. Il tema dell’editoriale è di notevole originalità: i giudici di Napoli “vogliono eliminare B.”. Prima erano i pm che volevano eliminarlo perché lo ritenevano vittima di estorsione (ipotesi fantascientifica, secondo l’house organ, per la decisiva ragione che B. negava di aver subito l’estorsione). Ora è il Riesame che vuole eliminarlo perché lo ritiene colpevole di aver istigato a suon di bigliettoni Tarantini a mentire (ipotesi fantascientifica, secondo l’house organ, per la decisiva ragione che “mai Tarantini ha fatto balenare di essere stato spinto dal Cavaliere a raccontare frottole ai magistrati”). In pratica, per il Mulè, il reato sussiste solo se l’indagato lo confessa. Dal che si deduce che Riina e Provenzano sono innocenti, visto che mai hanno fatto balenare il sospetto di essere mafiosi. Ergo, siccome il premier si proclama innocente, è innocente. Dunque non si deve dimettere.

Giriamo pagina, ed ecco Giuliano Ferrara, noto teologo, avventurarsi in una raffinata esegesi dell’anatema del cardinal Bagnasco. A suo avviso, Bagnasco ha scomunicato “le bisbocce” di B. che sono uno “scandalo privato”, ma purtroppo sono “emerse in pubblico”, su su fino alla Cei. Fossero rimaste segrete, si sarebbero potute risolvere fra le quattro mura di una sacrestia, dove “i preti esercitano le arti dell’educazione e della persuasione privata da secoli, attraverso la confessione, il pentimento e l’espiazione delle colpe: ascoltano, giudicano nel segreto, assolvono e impongono penitenze”. Quante patonze, figliolo? Ah, 36 alla volta? Perfetto, 36 pateravegloria al giorno, prima e dopo i pasti. Più che il segreto istruttorio, Giuliano l’Aprostata invoca il segreto confessionale. Non vuol darla vinta ai “divorzisti, preservativisti, abortisti ed eugenetisti sostenitori della fabbricazione dei figli e del libero amore” che infestano la sinistra e i suoi giornali. Dunque B. non si deve dimettere.

Voltiamo pagina, ed ecco Vespa. Si definisce “un epurato” (seguirà, a breve, apposito plastico dimostrativo). Afferma che “quasi tutte le reti tv e i giornali parlano male di B.”. Dipinge B. come “la persona più intercettata e processata del Paese”. Poi, dopo aver ammesso lacrimante che “il suo ciclo sta avviandosi a conclusione”, il noto umorista lo esorta a lasciarci “un partito moderato moderno” e “preparare il piano di rilancio”, modellato sul geniale “disegno di Alfano” (che sarebbe pure d’accordo, se solo sapesse di che si tratta).

Giriamo pagina, ed ecco Minzolingua, il più affranto fra gli impiegati. Ce l’ha coi “grandi giornali” che vogliono sacrificare il suo Faro come “capro espiatorio”, tipo Craxi. E per cosa, poi? Per le sue “scappatelle”, “frugando nella sua vita privata”, “bacchettoni moralisti” e “congiurati maramaldi” che non sono altro. Pensino piuttosto alle “tangenti”, dei “politici che rubano” e sono tutti di sinistra (B., com’è noto, non è mai stato sfiorato da sospetti di tangenti, se no Minzolingua l’avrebbe saputo). Ergo B. deve fare come Aldo Moro e dire “non ci faremo processare nelle piazze”. E neppure nei tribunali. Infatti “l’uscita di scena di B. determinerebbe la fine del centrodestra, del bipolarismo e la resa all’offensiva giudiziaria”, e forse anche la fine del mondo. Per tutti questi motivi, egregio Cavalier Patonza, Le chiediamo di non mollare. O almeno di rassicurare i suoi impiegati che anche dopo continueranno a prendere lo stipendio. Lo faccia per noi, ma soprattutto per loro.

Una realtà eversiva in Parlamento

Non mi fido di questo Governo

Referendum: i cittadini chiedono una nuova legge elettorale


“Non ce la farete mai”, “Inutile provarci”, “Impossibile raggiungere 500mila firme in poche settimane e con l’estate di mezzo”. Il copione si è ripetuto anche stavolta, com’era già successo per i referendum sull’acqua, il nucleare e il legittimo impedimento. Nessuno ci credeva, e invece di firme ne abbiamo raccolte non 500mila ma più di un milione e duecentomila, alla faccia dei Tg di regime che non si facevano scappare una parola sulla proposta di referendum sulla legge elettorale nemmeno a pagarla oro.
Questo risultato dovrebbe spiegare e far capire a tutti quello che noi già sapevamo: che i cittadini non ne possono più di questo Parlamento di nominati e di corrotti e vogliono a tutti i costi una nuova legge elettorale che gli permetta di scegliere i propri rappresentanti e non di ritrovarseli paracadutati da questa o quella segreteria di partito.
Ora una nuova legge elettorale dovrà essere varata al più presto. Ma nella nuova legge ci sono tre precondizioni secondo noi sono obbligatorie: i condannati non devono poter essere candidati; gli inquisiti non devono poter assumere cariche di governo e i parlamentari non devono poter svolgere un doppio lavoro, perché sennò come deputati e senatori votano la mattina le leggi che, come professionisti, gli servono al pomeriggio.
Ma il successo straordinario di questa raccolta di firme dice che i cittadini non ne possono più di vedere un Parlamento che invece di preoccuparsi delle loro difficoltà continua a riunirsi per fare leggi e leggine che servono solo al presidente del consiglio e ai suoi compari come il processo lungo o il bavaglio sulle intercettazioni. C’ è in giro una grande disperazione sociale, e se continua così finirà per forza per esplodere.

Terzo polo una chimera per il Pd


FEDERICO GEREMICCA

Si sente ripetere spesso - e la tesi non è infondata - che il fatto che il grosso della polemica politica resti tutta ancora incentrata sulle vicende giudiziarie del premier, in fondo, per l’esecutivo non sia un male.

Avrebbe di certo più difficoltà, infatti, a trovare argomenti e reggere il confronto sulle riforme promesse e non realizzate o sulle ricette, per esempio, messe in campo per l’uscita dalla crisi. Fatte tutte le differenze (e la principale sta nelle responsabilità che riguardano chi governa) analogo ragionamento sembra valere anche per l’opposizione: unitissima nell’attacco a Berlusconi ma pronta a dividersi su quasi qualunque altro tema.

La vicenda del non-voto della pattuglia radicale sulla mozione di sfiducia al ministro Romano o le profonde differenze intorno al modello di legge elettorale (ipoteticamente) da adottare sono solo alcuni esempi recenti di tali divisioni. In verità, non sono nemmeno i più preoccupanti, considerato che, col gran parlare che si fa di elezioni anticipate, due questioni stanno riemergendo con irrisolvibile nettezza: le alleanze con le quali andare al voto e il leader chiamato a guidare la coalizione nella sfida al centrodestra.

Negli ultimi giorni, diciamo a partire dalla presenza contemporanea di Bersani, Vendola e Di Pietro alla festa dell’Idv di Vasto, le due questioni si sono fuse dando il via ad un fuoco di fila che ha per bersagli il modello di alleanza prefigurato nel raduno abruzzese (che ha fatto evocare la «gioiosa macchina da guerra» di occhettiana memoria) e la circostanza che il candidato premier del centrosinistra debba inevitabilmente essere Pierluigi Bersani, qualunque sia il tipo di alleanza con il quale il Pd affronterà le elezioni. La polemica contro la «triade di Vasto» è stata cavalcata soprattutto dall’area cattolica del partito democratico, che non fa mistero di considerare irrinunciabile un’alleanza col Terzo polo di Pier Ferdinando Casini; a non dare per scontata la candidatura a premier di Bersani, invece, sono i cosiddetti veltroniani - animati ancora da un qualche spirito di rivalsa - oltre che Vendola stesso, naturalmente.

Si tratta di questioni certamente non facili da risolvere, tanto è vero che sono lì del tutto aperte. Ma, giunti a questo punto, non è forse azzardato ipotizzare che una soluzione - in fondo - sia già nelle cose: e che non venga accettata (riconosciuta) perché forse dolorosa e sgradita ai più. Intendiamo dire che la posizione ripetutamente espressa da Pier Ferdinando Casini (mai con Di Pietro e Vendola) andrebbe, a questo punto, presa per quel che è: cioè una seria dichiarazione di intenti. E che l’eclissi di Berlusconi e le grandi manovre in corso nel centrodestra rendono certamente più allettante - oltre che più naturale - per il leader dell’Udc un patto con un centrodestra libero (se sarà libero...) dalla presenza di Silvio Berlusconi.

Le difficoltà dell’area cattolica del Pd a «digerire» una tale soluzione sono del tutto comprensibili: la caccia al sempre inseguito «voto moderato» (se non proprio cattolico) si farebbe infatti assai difficile. Eppure, se la scelta del Terzo polo va maturando nella direzione che si diceva, forse converrebbe prenderne atto per tempo, provando almeno a valorizzarne le conseguenze. La prima è certamente una maggior chiarezza strategica da trasmettere agli elettori: fine, insomma, dell’imbarazzante ritornello «vi diremo poi con chi ci alleiamo», che è uno dei limiti maggiori delle forze oggi all’opposizione. La seconda potremmo definirla un atto di fiducia (in condizioni di necessità, certo) verso quello che viene di solito chiamato il «popolo di sinistra».

Pochi mesi fa, dopo l’esito delle primarie in città come Milano e Cagliari (dove i candidati cosiddetti «radicali» sconfissero gli alfieri del Pd) o dopo il risultato del primo turno a Napoli (con De Magistris al ballottaggio al posto del favorito Morcone), vennero intonati molti «de profundis», perché le partite sembravano inevitabilmente perse. Fu invece un trionfo, col centrodestra scompaginato nelle sue roccaforti (Milano) e battuto in città già date per conquistate (Napoli). Ora, naturalmente, una cosa è vincere (per di più delle elezioni amministrative) e un’altra è riuscire a governare, come testimoniò l’ultima esperienza di Romano Prodi. Ma intanto, banalmente, è sempre meglio vincere che perdere. E soprattutto, se la via dell’alleanza elettorale col Terzo polo si va tramutando sempre più in una chimera, tanto vale - forse - prenderne atto, smetterla di inseguire fantasmi e rimboccarsi le maniche, piuttosto, in vista di quel che sarà...

Se il cane da guardia non morde


VLADIMIRO ZAGREBELSKY

Cane da guardia della democrazia. Questo è il ruolo che la stampa svolge (deve svolgere, deve poter svolgere) in una società democratica, secondo una formula ripetutamente utilizzata, con lessico anglosassone, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. L’immagine è ricca di indicazioni. Il buon cane da guardia gira libero attorno a casa, orecchie tese e naso al vento. E abbaia, anche più forte del necessario e qualche volta deve mordere. Così la stampa.

La libertà di espressione è uno dei fondamenti essenziali di una società democratica e vale non soltanto per le informazioni o le idee accolte con favore o che sono inoffensive o indifferenti, ma proprio e specialmente per quelle che urtano e inquietano. Sulle questioni di interesse per il dibattito pubblico, al diritto di diffondere informazioni e opinioni corrisponde quello del pubblico di riceverle. Certo è possibile prevedere limiti alla libertà di espressione, quando siano in pericolo la sicurezza nazionale o l’ordine pubblico o occorra difendere la morale o la reputazione altrui, oppure si debba impedire la divulgazione di segreti o sia necessario proteggere l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario. Riprendo dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo questa elencazione di ipotesi di restrizioni legittime. Ma anche in quei casi solo una necessità imperativa può giustificare le limitazioni.

Alle ristrette possibilità di cui dispone l’autorità pubblica nel limitare la libertà di informazione si accompagna però il richiamo ai doveri professionali e alla responsabilità di chi, esponendo i fatti ed esprimendo il suo pensiero, si avvale della libertà di espressione.

Questo quadro di principi costituisce un tratto identitario della civiltà europea e occidentale. Nessuna società europea può distaccarsene, nessun governo può rifiutarlo o forzarlo.

Ma da tempo in Italia si discute aspramente di limitazioni da imporre alla possibilità di pubblicare (e quindi commentare) informazioni tratte dalle indagini giudiziarie. Si parla quasi solo delle intercettazioni telefoniche, ma si tratta di tutte le informazioni, anche quelle che si ricavano dalle testimonianze, da documenti, ecc. L’argomento che si usa è legato al diritto, anch’esso fondamentale, che le persone hanno al rispetto della propria reputazione e alla riservatezza della vita privata. L’occasione contingente della presente, acuta sensibilità rispetto a questo diritto delle persone spinge spesso ad assimilare il potente di turno a ciascuno di noi. Egli infatti dice: difendo la mia vita privata, ma lo faccio perché la nostra, di noi tutti, è in pericolo. Chi fosse impressionato dall’argomento, dovrebbe però considerare che non siamo tutti eguali e che meritano di essere conosciuti e commentati anche aspetti della cosiddetta vita privata dell’uomo politico, proprio perché egli si è candidato e si candiderà a essere eletto dai cittadini. Egli non «fa i fatti suoi», ma si occupa «dei fatti nostri» e si è esposto volontariamente all’esame del pubblico.

Dovendo tener conto della libertà di informazione, si dice spesso da parte governativa che si dovrebbe poter pubblicare solo quello che ha «rilievo penale». Purtroppo anche dall’opposizione si tende a seguire questa strada, come se fosse possibile stabilire ciò che in una conversazione è penalmente rilevante e come se questo fosse il vero discrimine tra ciò che è pubblicabile e ciò che non lo è.

Raramente una conversazione è in sé penalmente rilevante. Può esserlo se esprime minaccia o ingiuria, oppure rivela informazioni che devono rimaner segrete. Ma altrimenti il suo significato in un processo penale deriva dal contesto generale delle prove. La più innocente delle conversazioni telefoniche prova almeno che i due si conoscono. Non solo, ma ciò che ora sembra irrilevante può assumere altro senso e importanza in seguito, quando altre prove illumineranno diversamente la scena. E infine, occorrerà attendere il giudizio definitivo per costatare che questa o quella informazione, questa o quella frase hanno avuto peso nella decisione del giudice? I tempi di un’efficace informazione non corrispondono a quelli propri della giustizia penale.

Ma quello della rilevanza penale non è solo un criterio inutilizzabile in pratica. Più radicalmente è un criterio sbagliato. Da una parte, proprio perché una notizia riguarda un fatto rilevante per l’indagine o il processo penale, la protezione dell’efficacia della indagine può richiedere di impedirne o ritardarne la divulgazione. E dall’altra e soprattutto, perché il dibattito che legittimamente e doverosamente si svolge nella società democratica, considera un ambito di fatti che va ben oltre ciò che è «penalmente rilevante». L’opinione pubblica si interessa e si forma su ciò che è socialmente, culturalmente, economicamente, politicamente significativo. Il giudizio su ciò che è significativo e ciò che non lo è deve restare prevalentemente nelle mani di chi fa uso della libertà di espressione che la Costituzione e le convenzioni internazionali gli assicurano. E si tratta di un giudizio legato alla specificità del caso concreto, che mal sopporta regole generali e astratte, come sono quelle che impongono le leggi.

Non dunque il rilievo «penale», ma il rilievo «sociale» spinge il giornale e il giornalista a pubblicare o a trascurare una notizia e ancor prima, nel giornalismo di inchiesta, a cercarla, fino a forzare il segreto che altri è interessato ad assicurare.

I confini del lecito e dell’illecito nell’attività giornalistica sono inevitabilmente incerti. Esigenze e interessi diversi e opposti si contrappongono. Un bilanciamento è necessario: uno prevale e l’altro soffre. La violazione dei limiti imposti dalle leggi e dalla deontologia professionale è nell’ordine delle cose possibili. Ma anche quando ciò avvenga e sia quindi legittima una reazione repressiva o si imponga il risarcimento dei danni morali procurati ad altri, la protezione della libertà di stampa in generale richiede che la sanzione sia equilibrata. E che essa non produca un effetto di generale intimidazione alla libera stampa: giornalisti, giornali e editori. Dalle decisioni della Corte europea i parlamenti nazionali e i giudici ricavano che una sanzione penale detentiva è giustificata solo quando si sia di fronte a discorsi che incitano alla violenza o all’odio razziale, mentre anche le sanzioni economiche non devono essere eccessive. Ma di tutto ciò è scarso l’eco nel dibattito politico, né nei progetti che il parlamento è chiamato a discutere. Forte è invece la preoccupazione di assicurarsi che il cane da guardia non morda e sia prudente nell’abbaiare. Insomma, che non disturbi.

Yemen, ucciso l'imam radicale Awlaqi era tra i possibili successori Bin Laden


È stato ucciso l'imam radicale Anwar al-Awlaqi, legato ad Al Qaeda e ricercato dagli Stati Uniti. Lo ha annunciato il ministero della Difesa yemenita e la notizia è stata confermata al New York Times da un alto responsabile di Washington, sotto richiesta di anonimato.

Awlaqi, che aveva doppia cittadinanza americano-yemenita, era stato citato tra i papabili alla guida della rete terroristica dopo la morte di Osama Bin Laden. "Il leader terrorista di Al Qaeda, Anwar al Awlaqi, è stato ucciso assieme a dei membri dell'organizzazione che si trovavano con lui", ha precisato un portavoce del ministero, citato dalla tv di Stato. Il ministero non ha precisato le circostanze della morte di Awlaqi, ma secondo alcune fonte tribali il leader terrorista sarebbe morto in un raid aereo lanciato alle prime ore di oggi contro due veicoli che viaggiavano tra il Maarib, a est della capitale San'a, e Jouf, provincia desertica vicina all'Arabia Saudita. Awlaqi era uno dei tre "most wanted" della Cia perché considerato uno dei responsabili di alcuni attentati, come quello alla base militare americana di Fort Hood, in Texas o il tentativo di attacco su un aereo nel Natale 2009, o ancora del fallito attentato a Times Square a New York.

Al Awlaki, nato negli Usa 40 anni fa, figlio di un ex ministro dell'Agricoltura yemenita, è stato il primo cittadino statunitense nella storia ad essere inserito nella lista degli obiettivi della Cia e compare anche nella lista nera dell'Onu di personalità considerate legate ad Al Qaeda. Dall'11 settembre fonti dei servizi segreti occidentali citati dalla stampa americana lo hanno indicato come ispiratore di numerosi attentati.

Il leader torrorista, che ha vissuto per diversi anni negli Stati Uniti, era un punto di riferimento per i jihadisti di tutto il mondo per i suoi video-messaggi diffusi sul web e per gli articoli che scriveva per le riviste 'al-Malamih' e 'Inspire' pubblicate dai forum di al-Qaeda su internet. Awlaki ha predicato in numerose moschee americane e ha lavorato in un'associazione di beneficenza legata all'imam radicale yemenita Abdel Majid Zendani, accusato da Washington di essere coinvolto in attività di "gruppi terroristici". Nel 2006 è ritornato nello Yemen, dove è stato detenuto alcuni mesi per il suo coinvolgimento nel sequestro del figlio di un ricco cittadino yemenita, attraverso il quale avrebbe voluto "finanziare al Qaeda". Nel 2008 fu rilasciato con la condizione di rimanere a San'a e presentarsi in commissariato ogni giorno. Dopo alcuni mesi, però, fuggì dalla capitale e si rifugiò nella regione di Shabwa.

Il 7 aprile scorso, un responsabile dell'amministrazione Usa ha confermato che Barack Obama aveva dato il via libera alla sua eliminazione. Esattamente un mese dopo, e a quattro giorni dall'uccisione di Osama bin Laden, Awlaqi riuscì a scampare a un raid statunitense nel sud dello Yemen. La vettura sulla quale viaggiava fu lievemente colpita da un missile lanciato da un drone americano, ma l'imam radicale e i suoi accompagnatori furono capaci di mettersi in fuga con un'altra automobile. Secondo fonti di intelligence citate da Abc News, i servizi americani seguivano i suoi spostamenti da mesi e attendevano solo il momento giusto per il raid.

(30 settembre 2011)

La rivolta del Quarto Partito "Al voto per rilanciare il Paese"


di ALBERTO STATERA

GOVERNO "codardo", che "umilia il Paese". Sarà per la giovane età, sarà perché il tempo è ormai scaduto e la crisi morde senza speranze, sarà per la percezione di un'avventura politica ormai troppo a lungo agonizzante nel "non fare" e nel "malaffare", ma le parole più dure del Quarto Partito, nella tarda resipiscenza, vengono da Jacopo Morelli.

Presidente dei Giovani di Confindustria, Morelli è garbato, educato, non avvezzo ai toni troppo forti, tanto da credere di annunciare "una cosa rivoluzionaria" dicendo che fra poco più di tre settimane al convegno annuale di Capri rifiuterà politici sul palco, dopo che la presidente Emma Marcegaglia ha dato il benservito al governo, e persino i costruttori, colleghi d'imprenditoria del premier, hanno gridato "vergogna" all'indirizzo di uno dei tanti suoi improbabili ministri. E se Berlusconi irromperà a Capri come nel 2006 a Vicenza, quando sciatalgico saltò sul palco, mise in mora l'allora presidente Luca Cordero di Montezemolo e insolentì Diego Della Valle, godendo le ovazioni di un'assemblea da lui "ipnotizzata" come lo fu Sabina Began?

"Guardi - ci risponde il garbato Morelli - sono passati anni e le cose sono cambiate, perché dopo tanta inerzia il paese sta pagando le non scelte. Noi non ci sentiamo il Quarto Partito di degasperiana memoria. Quello senza il quale, De Gasperi disse allora, nel dopoguerra, che non si poteva governare l'Italia. Ma siamo donne e uomini liberi che vogliono contribuire a fare una grande operazione verità. Pretendiamo che i politici e il governo non facciano i sismografi di minoranze elettorali, ma facciano le cose giuste. Anche perché i loro elettori ormai si sono dati una regolata: hanno capito che la demagogia affonda il paese".

Berlusconi non salterà dunque sul palco di Capri. E' off limits anche per lui. In maggio, il garbato Morelli scrisse al premier, chiedendo di essere ricevuto per illustrare un pacchetto di proposte dei Giovani. Mai ebbe risposta, da un uomo forse impegnato troppo a gestire le coorti di coccodè, gli amici lenoni e le armate di avvocati. "Ho tutto il rispetto istituzionale dovuto al presidente del Consiglio, ma nel rispetto occorre un po' di reciprocità", azzarda Morelli. Se il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano accettasse l'invito, a Capri sarebbe invece di certo il benvenuto. Morelli gli ha scritto del "profondo disagio nel vedere il nostro paese nelle attuali difficoltà" a causa di una "politica priva di coraggio nelle riforme" e ne ha avuto subito riscontro.

Dio mio, che capitale di consenso disperso giusto in un decennio da Berlusconi. Correva il 2001, assemblea di Parma. "Il tuo programma è il mio programma", urla un Berlusconi appena trapiantato nel pelo non ancora asfaltato ad
Antonio D'Amato, presidente confindustriale, quasi ipnotizzato dall'imprenditore-politico come anni dopo sarà Sabina Began. Se oggi a D'Amato, comunque uomo di destra, parlate del premier, non otterrete neanche più risposte, ma soltanto smorfie quasi di disgusto. Il feeling durò. Gli astuti imprenditori credettero davvero per anni che Berlusconi incarnasse la nuova politica, liberista, filoindustriale, liberata di tutti quei fardelli di impianti culturali del passato, persino di quella sacralità della politica "alta" di Moro e Berlinguer, delle formule politichesi incomprensibili ai più come le "convergenze parallele". Fatti, non formule, dal mago di Arcore.

Poi venne Montezemolo che azzardò i distinguo e mal gliene incolse. A Vicenza nel 2006, l'istrione lo alienò dalla sua base del nord, la più importante. Oggi è un diluvio, con Emma Marcegaglia che dopo tanti penultimatum ha finalmente vergato l'ultimatum. Basta leggere "Il Sole-24 Ore", cui gli imprenditori interrogati confidano: "Mai vorrei essere bollato da comunista - dice uno - perché chiedo che questo governo se ne vada". Per carità, chi ci crede più ai comunisti. Altri articolano: "Un voto al governo? " - ironizza Mario Carraro, testa pensante dell'imprenditoria veneta - "Inclassificabile". E Roberto Zuccato, presidente di Confindustria Vicenza: "Basta credito, quando finalmente si andrà a votare sarà un voto complicato".

Lo certificano con metodi grillini anche gli imprenditori edilizi dell'Ance. E' un signore anziano molto dignitoso a urlare per primo l'altro giorno in platea "vergogna!" all'indirizzo di
Altero Matteoli. Le foto sono sui giornali poche pagine dopo quella di Berlusconi che abbraccia come in una scena del Padrino il ministro dell'Agricoltura Saverio Romano, accusato di concorso esterno con la mafia, cui la maggioranza berlusconiana, con il contributo determinante della corrente leghista del ministro di polizia Roberto Maroni, ha negato la sfiducia. Quella foto finirà forse sui libri di storia, più di quelle delle missioni di Stato ufficiali con Lavitola e col ministro degli Esteri Frattini, detto in alcune cancellerie "Fattorini", o dei compleanni con la vergine Noemi Letizia, come la certificazione di un'era politica durata quasi quanto il fascismo, che non seppe neanche liberarsi per consunzione interna.

Fa piacere che sia il giovane e garbato Morelli, dolce accento toscano, a usare i toni più aspri: codardia, umiliazione, rabbia per un'Italia 50 punti sotto il basis rating della Spagna, che ha un sistema industriale nano rispetto al nostro. Ma tant'è. Zapatero annunciando le dimissioni e le elezioni anticipate in novembre ha fatto risparmiare al suo paese alcuni miliardi di interessi sui titoli pubblici. Forse la sua patria la ama
. Berlusconi è diventato invece un costo miliardario per la collettività, di cui si faranno i conti nel giorno in cui lascerà la poltrona cui è abbarbicato a palazzo Chigi a non-guidare un paese che considera "di merda". Nessuno forse gli ha detto che da diciassette anni questo paese olezzante si è identificato con lui, non solo nelle periferie operaie, ma nei santuari industriali e finanziari, in quelli che lui continua a definire i poteri forti. Ma forse poteri morti.

Cosa avrebbe detto il giovane e garbato Morelli al premier se ne fosse stato ascoltato? Lo abbiamo chiesto a lui stesso che ci ha sfornato una serie di dati per spiegare, ad esempio, come i suoi coetanei che non hanno beni di famiglia vivranno in povertà in un ex grande paese industriale a causa della politica dominante, incapace da anni di superare la viltà soltanto per mantenere il potere. "Gli avrei detto, per esempio, che la Germania ha l'11 per cento di spesa pensionistica sul Pil, la Svezia il 9,5 per cento, contro il nostro 15. E che per meri interessi elettorali non si possono condannare i miei coetanei, oltre che all'attuale alla futura povertà".

I dati di Morelli sono persino ottimistici. Gli abbiamo segnalato quelli calcolati da
Walter Passerini e Ignazio Marino in un libro uscito ieri per Chiarelettere nel quale i conti sono meno propizi: un ragioniere oggi quasi di mezza età andrà in pensione con un 20/25 per cento dell'ultima retribuzione, un biologo con il 13, un infermiere con l'11. Ma dopo il 2013. Il futuro del paese per il governo Berlusconi non è cosa nostra.

Per quasi tre lustri questo berlusconismo di governo ha stregato l'ex Quarto Partito. Ce ne ha messo per svegliarsi dal lungo sonno della ragione.

a.statera[at]repubblica[dot]it

(30 settembre 2011)